Enciclica-fratelli-tutti
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LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE
FRANCESCO
“APERUIT ILLIS”
CON LA QUALE VIENE ISTITUITA LA
DOMENICA DELLA PAROLA DI DIO
1. «Aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45). È uno degli ultimi gesti compiuti dal Signore risorto, prima della sua Ascensione. Appare ai discepoli mentre sono radunati insieme, spezza con loro il pane e apre le loro menti all’intelligenza delle Sacre Scritture. A quegli uomini impauriti e delusi rivela il senso del mistero pasquale: che cioè, secondo il progetto eterno del Padre, Gesù doveva patire e risuscitare dai morti per offrire la conversione e il perdono dei peccati (cfr Lc 24,26.46-47); e promette lo Spirito Santo che darà loro la forza di essere testimoni di questo Mistero di salvezza (cfr Lc 24,49).
La relazione tra il Risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura è estremamente vitale per la nostra identità. Senza il Signore che ci introduce è impossibile comprendere in profondità la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero il contrario: senza la Sacra Scrittura restano indecifrabili gli eventi della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo. Giustamente San Girolamo poteva scrivere: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (In Is., Prologo: PL 24,17).
2. A conclusione del Giubileo straordinario della misericordia avevo chiesto che si pensasse a «una domenica dedicata interamente alla Parola di Dio, per comprendere l’inesauribile ricchezza che proviene da quel dialogo costante di Dio con il suo popolo» (Lett. ap. Misericordia et misera, 7). Dedicare in modo particolare una domenica dell’Anno liturgico alla Parola di Dio consente, anzitutto, di far rivivere alla Chiesa il gesto del Risorto che apre anche per noi il tesoro della sua Parola perché possiamo essere nel mondo annunciatori di questa inesauribile ricchezza. Tornano alla mente in proposito gli insegnamenti di Sant’Efrem: «Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto di più ciò che sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono a una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di quanti la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla» (Commenti sul Diatessaron, 1, 18).
Con questa Lettera, pertanto, intendo rispondere a tante richieste che mi sono giunte da parte del popolo di Dio, perché in tutta la Chiesa si possa celebrare in unità di intenti la Domenica della Parola di Dio. È diventata ormai una prassi comune vivere dei momenti in cui la comunità cristiana si concentra sul grande valore che la Parola di Dio occupa nella sua esistenza quotidiana. Esiste nelle diverse Chiese locali una ricchezza di iniziative che rende sempre più accessibile la Sacra Scrittura ai credenti, così da farli sentire grati di un dono tanto grande, impegnati a viverlo nel quotidiano e responsabili di testimoniarlo con coerenza.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dato un grande impulso alla riscoperta della Parola di Dio con la Costituzione dogmatica Dei Verbum. Da quelle pagine, che sempre meritano di essere meditate e vissute, emerge in maniera chiara la natura della Sacra Scrittura, il suo essere tramandata di generazione in generazione (cap. II), la sua ispirazione divina (cap. III) che abbraccia Antico e Nuovo Testamento (capp. IV e V) e la sua importanza per la vita della Chiesa (cap. VI). Per incrementare quell’insegnamento, Benedetto XVI convocò nel 2008 un’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, in seguito alla quale pubblicò l’Esortazione Apostolica Verbum Domini, che costituisce un insegnamento imprescindibile per le nostre comunità.[1] In questo Documento, in modo particolare, viene approfondito il carattere performativo della Parola di Dio, soprattutto quando nell’azione liturgica emerge il suo carattere propriamente sacramentale.[2]
È bene, pertanto, che non venga mai a mancare nella vita del nostro popolo questo rapporto decisivo con la Parola viva che il Signore non si stanca mai di rivolgere alla sua Sposa, perché possa crescere nell’amore e nella testimonianza di fede.
3. Stabilisco, pertanto, che la III Domenica del Tempo Ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio. Questa Domenica della Parola di Dio verrà così a collocarsi in un momento opportuno di quel periodo dell’anno, quando siamo invitati a rafforzare i legami con gli ebrei e a pregare per l’unità dei cristiani. Non si tratta di una mera coincidenza temporale: celebrare la Domenica della Parola di Dio esprime una valenza ecumenica, perché la Sacra Scrittura indica a quanti si pongono in ascolto il cammino da perseguire per giungere a un’unità autentica e solida.
Le comunità troveranno il modo per vivere questa Domenica come un giorno solenne. Sarà importante, comunque, che nella celebrazione eucaristica si possa intronizzare il testo sacro, così da rendere evidente all’assemblea il valore normativo che la Parola di Dio possiede. In questa domenica, in modo particolare, sarà utile evidenziare la sua proclamazione e adattare l’omelia per mettere in risalto il servizio che si rende alla Parola del Signore. I Vescovi potranno in questa Domenica celebrare il rito del Lettorato o affidare un ministero simile, per richiamare l’importanza della proclamazione della Parola di Dio nella liturgia. È fondamentale, infatti, che non venga meno ogni sforzo perché si preparino alcuni fedeli ad essere veri annunciatori della Parola con una preparazione adeguata, così come avviene in maniera ormai usuale per gli accoliti o i ministri straordinari della Comunione. Alla stessa stregua, i parroci potranno trovare le forme per la consegna della Bibbia, o di un suo libro, a tutta l’assemblea in modo da far emergere l’importanza di continuare nella vita quotidiana la lettura, l’approfondimento e la preghiera con la Sacra Scrittura, con un particolare riferimento alla lectio divina.
4. Il ritorno del popolo d’Israele in patria, dopo l’esilio babilonese, fu segnato in modo significativo dalla lettura del libro della Legge. La Bibbia ci offre una commovente descrizione di quel momento nel libro di Neemia. Il popolo è radunato a Gerusalemme nella piazza della Porta delle Acque in ascolto della Legge. Quel popolo era stato disperso con la deportazione, ma ora si ritrova radunato intorno alla Sacra Scrittura come fosse «un solo uomo» (Ne 8,1). Alla lettura del libro sacro, il popolo «tendeva l’orecchio» (Ne 8,3), sapendo di ritrovare in quella parola il senso degli eventi vissuti. La reazione alla proclamazione di quelle parole fu la commozione e il pianto: «[I leviti] leggevano il libro della Legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemia, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: “Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!”. Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della Legge. […] “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”» (Ne 8,8-10).
Queste parole contengono un grande insegnamento. La Bibbia non può essere solo patrimonio di alcuni e tanto meno una raccolta di libri per pochi privilegiati. Essa appartiene, anzitutto, al popolo convocato per ascoltarla e riconoscersi in quella Parola. Spesso, si verificano tendenze che cercano di monopolizzare il testo sacro relegandolo ad alcuni circoli o a gruppi prescelti. Non può essere così. La Bibbia è il libro del popolo del Signore che nel suo ascolto passa dalla dispersione e dalla divisione all’unità. La Parola di Dio unisce i credenti e li rende un solo popolo.
5. In questa unità, generata dall’ascolto, i Pastori in primo luogo hanno la grande responsabilità di spiegare e permettere a tutti di comprendere la Sacra Scrittura. Poiché essa è il libro del popolo, quanti hanno la vocazione di essere ministri della Parola devono sentire forte l’esigenza di renderla accessibile alla propria comunità.
L’omelia, in particolare, riveste una funzione del tutto peculiare, perché possiede «un carattere quasi sacramentale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 142). Far entrare in profondità nella Parola di Dio, con un linguaggio semplice e adatto a chi ascolta, permette al sacerdote di far scoprire anche la «bellezza delle immagini che il Signore utilizzava per stimolare la pratica del bene» (ibid.). Questa è un’opportunità pastorale da non perdere!
Per molti dei nostri fedeli, infatti, questa è l’unica occasione che possiedono per cogliere la bellezza della Parola di Dio e vederla riferita alla loro vita quotidiana. È necessario, quindi, che si dedichi il tempo opportuno per la preparazione dell’omelia. Non si può improvvisare il commento alle letture sacre. A noi predicatori è richiesto, piuttosto, l’impegno a non dilungarci oltre misura con omelie saccenti o argomenti estranei. Quando ci si ferma a meditare e pregare sul testo sacro, allora si è capaci di parlare con il cuore per raggiungere il cuore delle persone che ascoltano, così da esprimere l’essenziale che viene colto e che produce frutto. Non stanchiamoci mai di dedicare tempo e preghiera alla Sacra Scrittura, perché venga accolta «non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio» (1Ts 2,13).
È bene che anche i catechisti, per il ministero che rivestono di aiutare a crescere nella fede, sentano l’urgenza di rinnovarsi attraverso la familiarità e lo studio delle Sacre Scritture, che consentano loro di favorire un vero dialogo tra quanti li ascoltano e la Parola di Dio.
6. Prima di raggiungere i discepoli, chiusi in casa, e aprirli all’intelligenza della Sacra Scrittura (cfr Lc 24,44-45), il Risorto appare a due di loro lungo la via che porta da Gerusalemme a Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Il racconto dell’evangelista Luca nota che è il giorno stesso della Risurrezione, cioè la domenica. Quei due discepoli discutono sugli ultimi avvenimenti della passione e morte di Gesù. Il loro cammino è segnato dalla tristezza e dalla delusione per la tragica fine di Gesù. Avevano sperato in Lui come Messia liberatore, e si trovano di fronte allo scandalo del Crocifisso. Con discrezione, il Risorto stesso si avvicina e cammina con i discepoli, ma quelli non lo riconoscono (cfr v. 16). Lungo la strada, il Signore li interroga, rendendosi conto che non hanno compreso il senso della sua passione e morte; li chiama «stolti e lenti di cuore» (v. 25) e «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (v. 27). Cristo è il primo esegeta! Non solo le Scritture antiche hanno anticipato quanto Egli avrebbe realizzato, ma Lui stesso ha voluto essere fedele a quella Parola per rendere evidente l’unica storia della salvezza che trova in Cristo il suo compimento.
7. La Bibbia, pertanto, in quanto Sacra Scrittura, parla di Cristo e lo annuncia come colui che deve attraversare le sofferenze per entrare nella gloria (cfr v. 26). Non una sola parte, ma tutte le Scritture parlano di Lui. La sua morte e risurrezione sono indecifrabili senza di esse. Per questo una delle confessioni di fede più antiche sottolinea che Cristo «morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa» (1Cor 15,3-5). Poiché le Scritture parlano di Cristo, permettono di credere che la sua morte e risurrezione non appartengono alla mitologia, ma alla storia e si trovano al centro della fede dei suoi discepoli.
È profondo il vincolo tra la Sacra Scrittura e la fede dei credenti. Poiché la fede proviene dall’ascolto e l’ascolto è incentrato sulla parola di Cristo (cfr Rm 10,17), l’invito che ne scaturisce è l’urgenza e l’importanza che i credenti devono riservare all’ascolto della Parola del Signore sia nell’azione liturgica, sia nella preghiera e riflessione personali.
8. Il “viaggio” del Risorto con i discepoli di Emmaus si chiude con la cena. Il misterioso Viandante accetta l’insistente richiesta che gli rivolgono i due: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Si siedono a tavola, Gesù prende il pane, recita la benedizione, lo spezza e lo offre a loro. In quel momento i loro occhi si aprono e lo riconoscono (cfr v. 31).
Comprendiamo da questa scena quanto sia inscindibile il rapporto tra la Sacra Scrittura e l’Eucaristia. Il Concilio Vaticano II insegna: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei Verbum, 21).
La frequentazione costante della Sacra Scrittura e la celebrazione dell’Eucaristia rendono possibile il riconoscimento fra persone che si appartengono. Come cristiani siamo un solo popolo che cammina nella storia, forte della presenza del Signore in mezzo a noi che ci parla e ci nutre. Il giorno dedicato alla Bibbia vuole essere non “una volta all’anno”, ma una volta per tutto l’anno, perché abbiamo urgente necessità di diventare familiari e intimi della Sacra Scrittura e del Risorto, che non cessa di spezzare la Parola e il Pane nella comunità dei credenti. Per questo abbiamo bisogno di entrare in confidenza costante con la Sacra Scrittura, altrimenti il cuore resta freddo e gli occhi rimangono chiusi, colpiti come siamo da innumerevoli forme di cecità.
Sacra Scrittura e Sacramenti tra loro sono inseparabili. Quando i Sacramenti sono introdotti e illuminati dalla Parola, si manifestano più chiaramente come la meta di un cammino dove Cristo stesso apre la mente e il cuore a riconoscere la sua azione salvifica. È necessario, in questo contesto, non dimenticare l’insegnamento che viene dal libro dell’Apocalisse. Qui viene insegnato che il Signore sta alla porta e bussa. Se qualcuno ascolta la sua voce e gli apre, Egli entra per cenare insieme (cfr 3,20). Cristo Gesù bussa alla nostra porta attraverso la Sacra Scrittura; se ascoltiamo e apriamo la porta della mente e del cuore, allora entra nella nostra vita e rimane con noi.
9. Nella Seconda Lettera a Timoteo, che costituisce in qualche modo il suo testamento spirituale, San Paolo raccomanda al suo fedele collaboratore di frequentare costantemente la Sacra Scrittura. L’Apostolo è convinto che «tutta la Sacra Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare» (3,16). Questa raccomandazione di Paolo a Timoteo costituisce una base su cui la Costituzione conciliare Dei Verbum affronta il grande tema dell’ispirazione della Sacra Scrittura, una base da cui emergono in particolare la finalità salvifica, la dimensione spirituale e il principio dell’incarnazione per la Sacra Scrittura.
Richiamando anzitutto la raccomandazione di Paolo a Timoteo, la Dei Verbum sottolinea che «i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture» (n. 11). Poiché queste istruiscono in vista della salvezza per la fede in Cristo (cfr 2Tm 3,15), le verità contenute in esse servono per la nostra salvezza. La Bibbia non è una raccolta di libri di storia, né di cronaca, ma è interamente rivolta alla salvezza integrale della persona. L’innegabile radicamento storico dei libri contenuti nel testo sacro non deve far dimenticare questa finalità primordiale: la nostra salvezza. Tutto è indirizzato a questa finalità iscritta nella natura stessa della Bibbia, che è composta come storia di salvezza in cui Dio parla e agisce per andare incontro a tutti gli uomini e salvarli dal male e dalla morte.
Per raggiungere tale finalità salvifica, la Sacra Scrittura sotto l’azione dello Spirito Santo trasforma in Parola di Dio la parola degli uomini scritta in maniera umana (cfr Dei Verbum, 12). Il ruolo dello Spirito Santo nella Sacra Scrittura è fondamentale. Senza la sua azione, il rischio di rimanere rinchiusi nel solo testo scritto sarebbe sempre all’erta, rendendo facile l’interpretazione fondamentalista, da cui bisogna rimanere lontani per non tradire il carattere ispirato, dinamico e spirituale che il testo sacro possiede. Come ricorda l’Apostolo «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita»(2Cor 3,6). Lo Spirito Santo, dunque, trasforma la Sacra Scrittura in Parola vivente di Dio, vissuta e trasmessa nella fede del suo popolo santo.
10. L’azione dello Spirito Santo non riguarda soltanto la formazione della Sacra Scrittura, ma opera anche in coloro che si pongono in ascolto della Parola di Dio. È importante l’affermazione dei Padri conciliari secondo cui la Sacra Scrittura deve essere «letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (Dei Verbum, 12). Con Gesù Cristo la rivelazione di Dio raggiunge il suo compimento e la sua pienezza; eppure, lo Spirito Santo continua la sua azione. Sarebbe riduttivo, infatti, limitare l’azione dello Spirito Santo solo alla natura divinamente ispirata della Sacra Scrittura e ai suoi diversi autori. È necessario, pertanto, avere fiducia nell’azione dello Spirito Santo che continua a realizzare una sua peculiare forma di ispirazione quando la Chiesa insegna la Sacra Scrittura, quando il Magistero la interpreta autenticamente (cfr ibid., 10) e quando ogni credente ne fa la propria norma spirituale. In questo senso possiamo comprendere le parole di Gesù quando, ai discepoli che confermano di aver afferrato il significato delle sue parabole, dice: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
11. La Dei Verbum, infine, precisa che «le parole di Dio espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (n. 13). È come dire che l’Incarnazione del Verbo di Dio dà forma e senso alla relazione tra la Parola di Dio e il linguaggio umano, con le sue condizioni storiche e culturali. È in questo evento che prende forma la Tradizione, che è anch’essa Parola di Dio (cfr ibid., 9). Spesso si corre il rischio di separare tra loro la Sacra Scrittura e la Tradizione, senza comprendere che insieme sono l’unica fonte della Rivelazione. Il carattere scritto della prima nulla toglie al suo essere pienamente parola viva; così come la Tradizione viva della Chiesa, che la trasmette incessantemente nel corso dei secoli di generazione in generazione, possiede quel libro sacro come la «regola suprema della fede» (ibid., 21). D’altronde, prima di diventare un testo scritto, la Sacra Scrittura è stata trasmessa oralmente e mantenuta viva dalla fede di un popolo che la riconosceva come sua storia e principio di identità in mezzo a tanti altri popoli. La fede biblica, pertanto, si fonda sulla Parola viva, non su un libro.
12. Quando la Sacra Scrittura è letta nello stesso Spirito con cui è stata scritta, permane sempre nuova. L’Antico Testamento non è mai vecchio una volta che è parte del Nuovo, perché tutto è trasformato dall’unico Spirito che lo ispira. L’intero testo sacro possiede una funzione profetica: essa non riguarda il futuro, ma l’oggi di chi si nutre di questa Parola. Gesù stesso lo afferma chiaramente all’inizio del suo ministero: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Chi si nutre ogni giorno della Parola di Dio si fa, come Gesù, contemporaneo delle persone che incontra; non è tentato di cadere in nostalgie sterili per il passato, né in utopie disincarnate verso il futuro.
La Sacra Scrittura svolge la sua azione profetica anzitutto nei confronti di chi l’ascolta. Essa provoca dolcezza e amarezza. Tornano alla mente le parole del profeta Ezechiele quando, invitato dal Signore a mangiare il rotolo del libro, confida: «Fu per la mia bocca dolce come il miele» (3,3). Anche l’evangelista Giovanni sull’isola di Patmos rivive la stessa esperienza di Ezechiele di mangiare il libro, ma aggiunge qualcosa di più specifico: «In bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Ap 10,10).
La dolcezza della Parola di Dio ci spinge a parteciparla a quanti incontriamo nella nostra vita per esprimere la certezza della speranza che essa contiene (cfr 1Pt 3,15-16). L’amarezza, a sua volta, è spesso offerta dal verificare quanto difficile diventi per noi doverla vivere con coerenza, o toccare con mano che essa viene rifiutata perché non ritenuta valida per dare senso alla vita. È necessario, pertanto, non assuefarsi mai alla Parola di Dio, ma nutrirsi di essa per scoprire e vivere in profondità la nostra relazione con Dio e i fratelli.
13. Un’ulteriore provocazione che proviene dalla Sacra Scrittura è quella che riguarda la carità. Costantemente la Parola di Dio richiama all’amore misericordioso del Padre che chiede ai figli di vivere nella carità. La vita di Gesù è l’espressione piena e perfetta di questo amore divino che non trattiene nulla per sé, ma a tutti offre sé stesso senza riserve. Nella parabola del povero Lazzaro troviamo un’indicazione preziosa. Quando Lazzaro e il ricco muoiono, questi, vedendo il povero nel seno di Abramo, chiede che venga inviato ai suoi fratelli perché li ammonisca a vivere l’amore del prossimo, per evitare che anch’essi subiscano i suoi stessi tormenti. La risposta di Abramo è pungente: «Hanno Mosè e i profeti ascoltino loro» (Lc 16,29). Ascoltare le Sacre Scritture per praticare la misericordia: questa è una grande sfida posta dinanzi alla nostra vita. La Parola di Dio è in grado di aprire i nostri occhi per permetterci di uscire dall’individualismo che conduce all’asfissia e alla sterilità mentre spalanca la strada della condivisione e della solidarietà.
14. Uno degli episodi più significativi del rapporto tra Gesù e i discepoli è il racconto della Trasfigurazione. Gesù sale sul monte a pregare con Pietro, Giacomo e Giovanni. Gli evangelisti ricordano che mentre il volto e le vesti di Gesù risplendevano, due uomini conversavano con Lui: Mosè ed Elia, che impersonano rispettivamente la Legge e i Profeti, cioè le Sacre Scritture. La reazione di Pietro, a quella vista, è piena di gioiosa meraviglia: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Lc 9,33). In quel momento una nube li copre con la sua ombra e i discepoli sono colti dalla paura.
La Trasfigurazione richiama la festa delle capanne, quando Esdra e Neemia leggevano il testo sacro al popolo, dopo il ritorno dall’esilio. Nello stesso tempo, essa anticipa la gloria di Gesù in preparazione allo scandalo della passione, gloria divina che viene evocata anche dalla nube che avvolge i discepoli, simbolo della presenza del Signore. Questa Trasfigurazione è simile a quella della Sacra Scrittura, che trascende sé stessa quando nutre la vita dei credenti. Come ricorda la Verbum Domini: «Nel recupero dell’articolazione tra i diversi sensi scritturistici diventa allora decisivo cogliere il passaggio tra lettera e spirito. Non si tratta di un passaggio automatico e spontaneo; occorre piuttosto un trascendimento della lettera» (n. 38).
15. Nel cammino di accoglienza della Parola di Dio, ci accompagna la Madre del Signore, riconosciuta come beata perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le aveva detto (cfr Lc 1,45). La beatitudine di Maria precede tutte le beatitudini pronunciate da Gesù per i poveri, gli afflitti, i miti, i pacificatori e coloro che sono perseguitati, perché è la condizione necessaria per qualsiasi altra beatitudine. Nessun povero è beato perché povero; lo diventa se, come Maria, crede nell’adempimento della Parola di Dio. Lo ricorda un grande discepolo e maestro della Sacra Scrittura, Sant’Agostino: «Qualcuno in mezzo alla folla, particolarmente preso dall’entusiasmo, esclamò: “Beato il seno che ti ha portato”. E lui: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio, e la custodiscono”. Come dire: anche mia madre, che tu chiami beata, è beata appunto perché custodisce la parola di Dio, non perché in lei il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi, ma perché custodisce il Verbo stesso di Dio per mezzo del quale è stata fatta, e che in lei si è fatto carne» (Sul Vang. di Giov., 10, 3).
La domenica dedicata alla Parola possa far crescere nel popolo di Dio la religiosa e assidua familiarità con le Sacre Scritture, così come l’autore sacro insegnava già nei tempi antichi: «Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14).
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, 30 Settembre 2019
Memoria liturgica di San Girolamo nell’inizio del 1600° anniversario della morte
FRANCESCO
“Gaudete et Exsultate” di Papa Francesco
È composta da cinque capitoli per aiutare tutta la Chiesa a promuovere il desiderio della santità l’esortazione “Gaudete et Exsultate” uscita in questi giorni, in cui papa Francesco ha affrontato il tema della chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. “Il mio umile obiettivo – si legge nell’intro- duzione – è far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità. Perché il Signore ha scelto ciascuno di noi per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità”. Uno sguardo ai giovani, ai deboli, ai migranti a cui guardare con discernimento e spirito cristiano.
L’esortazione apostolica comincia con la “Chiamata alla santità”, trattata nel primo capitolo, in cui papa Francesco ha spiegato chi sono i “santi della porta accanto” e quale missione ognuno di noi può avere, mentre nel secondo capitolo si descrivono i “due sottili nemici” della santità: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Nel terzo capitolo, “Alla luce del Maestro”, arriva la risposta alla domanda su come essere, davvero, un buon cristiano, mentre nel quarto capitolo si prendono in esame “alcune caratteristiche della santità nel mondo attuale” e si indicano anche “alcuni rischi e limiti della cultura di oggi: l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale”. Nel quinto capitolo, “Combattimento, vigilanza e discernimento”, si sottolinea come la vita cristiana sia “un combattimento permanente”, in cui si richiede “forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella – rimarca Francesco -, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita”. “Spero che queste pagine – si legge in conclusione – siano utili perché tutta la Chiesa si dedichi a promuovere il desiderio della santità. Chiediamo che lo Spirito Santo infonda in noi un intenso desiderio di essere santi per la maggior gloria di Dio e incoraggiamoci a vicenda in questo proposito. Così condivideremo una felicità che il mondo non ci potrà togliere”.
ESORTAZIONE APOSTILICA DI PAPA FRANCESCO "Gaudete et Exsultate"
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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA QUARESIMA 2018
«Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24,12)
Cari fratelli e sorelle,
ancora una volta ci viene incontro la Pasqua del Signore! Per prepararci ad essa la Provvidenza di Dio ci offre ogni anno la Quaresima, «segno sacramentale della nostra conversione»,[1] che annuncia e realizza la possibilità di tornare al Signore con tutto il cuore e con tutta la vita.
Anche quest’anno, con il presente messaggio, desidero aiutare tutta la Chiesa a vivere con gioia e verità in questo tempo di grazia; e lo faccio lasciandomi ispirare da un’espressione di Gesù nel Vangelo di Matteo: «Per il dilagare dell’iniquità l’amore di molti si raffredderà» (24,12).
Questa frase si trova nel discorso che riguarda la fine dei tempi e che è ambientato a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, proprio dove avrà inizio la passione del Signore. Rispondendo a una domanda dei discepoli, Gesù annuncia una grande tribolazione e descrive la situazione in cui potrebbe trovarsi la comunità dei credenti: di fronte ad eventi dolorosi, alcuni falsi profeti inganneranno molti, tanto da minacciare di spegnere nei cuori la carità che è il centro di tutto il Vangelo.
I falsi profeti
Ascoltiamo questo brano e chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti?
Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro. Quanti figli di Dio sono suggestionati dalle lusinghe del piacere di pochi istanti, che viene scambiato per felicità! Quanti uomini e donne vivono come incantati dall’illusione del denaro, che li rende in realtà schiavi del profitto o di interessi meschini! Quanti vivono pensando di bastare a sé stessi e cadono preda della solitudine!
Altri falsi profeti sono quei “ciarlatani” che offrono soluzioni semplici e immediate alle sofferenze, rimedi che si rivelano però completamente inefficaci: a quanti giovani è offerto il falso rimedio della droga, di relazioni “usa e getta”, di guadagni facili ma disonesti! Quanti ancora sono irretiti in una vita completamente virtuale, in cui i rapporti sembrano più semplici e veloci per rivelarsi poi drammaticamente privi di senso! Questi truffatori, che offrono cose senza valore, tolgono invece ciò che è più prezioso come la dignità, la libertà e la capacità di amare. E’ l’inganno della vanità, che ci porta a fare la figura dei pavoni… per cadere poi nel ridicolo; e dal ridicolo non si torna indietro. Non fa meraviglia: da sempre il demonio, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), presenta il male come bene e il falso come vero, per confondere il cuore dell’uomo. Ognuno di noi, perciò, è chiamato a discernere nel suo cuore ed esaminare se è minacciato dalle menzogne di questi falsi profeti. Occorre imparare a non fermarsi a livello immediato, superficiale, ma riconoscere ciò che lascia dentro di noi un’impronta buona e più duratura, perché viene da Dio e vale veramente per il nostro bene.
Un cuore freddo
Dante Alighieri, nella sua descrizione dell’inferno, immagina il diavolo seduto su un trono di ghiaccio;[2] egli abita nel gelo dell’amore soffocato. Chiediamoci allora: come si raffredda in noi la carità? Quali sono i segnali che ci indicano che in noi l’amore rischia di spegnersi?
Ciò che spegne la carità è anzitutto l’avidità per il denaro, «radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10); ad essa segue il rifiuto di Dio e dunque di trovare consolazione in Lui, preferendo la nostra desolazione al conforto della sua Parola e dei Sacramenti.[3] Tutto ciò si tramuta in violenza che si volge contro coloro che sono ritenuti una minaccia alle nostre “certezze”: il bambino non ancora nato, l’anziano malato, l’ospite di passaggio, lo straniero, ma anche il prossimo che non corrisponde alle nostre attese.
Anche il creato è testimone silenzioso di questo raffreddamento della carità: la terra è avvelenata da rifiuti gettati per incuria e interesse; i mari, anch’essi inquinati, devono purtroppo ricoprire i resti di tanti naufraghi delle migrazioni forzate; i cieli – che nel disegno di Dio cantano la sua gloria – sono solcati da macchine che fanno piovere strumenti di morte.
L’amore si raffredda anche nelle nostre comunità: nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho cercato di descrivere i segni più evidenti di questa mancanza di amore. Essi sono: l’accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è apparente, riducendo in tal modo l’ardore missionario.[4]
Cosa fare?
Se vediamo nel nostro intimo e attorno a noi i segnali appena descritti, ecco che la Chiesa, nostra madre e maestra, assieme alla medicina, a volte amara, della verità, ci offre in questo tempo di Quaresima il dolce rimedio della preghiera, dell’elemosina e del digiuno.
Dedicando più tempo alla preghiera, permettiamo al nostro cuore di scoprire le menzogne segrete con le quali inganniamo noi stessi,[5] per cercare finalmente la consolazione in Dio. Egli è nostro Padre e vuole per noi la vita.
L’esercizio dell’elemosina ci libera dall’avidità e ci aiuta a scoprire che l’altro è mio fratello: ciò che ho non è mai solo mio. Come vorrei che l’elemosina si tramutasse per tutti in un vero e proprio stile di vita! Come vorrei che, in quanto cristiani, seguissimo l’esempio degli Apostoli e vedessimo nella possibilità di condividere con gli altri i nostri beni una testimonianza concreta della comunione che viviamo nella Chiesa. A questo proposito faccio mia l’esortazione di san Paolo, quando invitava i Corinti alla colletta per la comunità di Gerusalemme: «Si tratta di cosa vantaggiosa per voi» (2 Cor 8,10). Questo vale in modo speciale nella Quaresima, durante la quale molti organismi raccolgono collette a favore di Chiese e popolazioni in difficoltà. Ma come vorrei che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede un aiuto, noi pensassimo che lì c’è un appello della divina Provvidenza: ogni elemosina è un’occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli; e se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità, Lui che non si lascia vincere in generosità?[6]
Il digiuno, infine, toglie forza alla nostra violenza, ci disarma, e costituisce un’importante occasione di crescita. Da una parte, ci permette di sperimentare ciò che provano quanti mancano anche dello stretto necessario e conoscono i morsi quotidiani dalla fame; dall’altra, esprime la condizione del nostro spirito, affamato di bontà e assetato della vita di Dio. Il digiuno ci sveglia, ci fa più attenti a Dio e al prossimo, ridesta la volontà di obbedire a Dio che, solo, sazia la nostra fame.
Vorrei che la mia voce giungesse al di là dei confini della Chiesa Cattolica, per raggiungere tutti voi, uomini e donne di buona volontà, aperti all’ascolto di Dio. Se come noi siete afflitti dal dilagare dell’iniquità nel mondo, se vi preoccupa il gelo che paralizza i cuori e le azioni, se vedete venire meno il senso di comune umanità, unitevi a noi per invocare insieme Dio, per digiunare insieme e insieme a noi donare quanto potete per aiutare i fratelli!
Il fuoco della Pasqua
Invito soprattutto i membri della Chiesa a intraprendere con zelo il cammino della Quaresima, sorretti dall’elemosina, dal digiuno e dalla preghiera. Se a volte la carità sembra spegnersi in tanti cuori, essa non lo è nel cuore di Dio! Egli ci dona sempre nuove occasioni affinché possiamo ricominciare ad amare.
Una occasione propizia sarà anche quest’anno l’iniziativa “24 ore per il Signore”, che invita a celebrare il Sacramento della Riconciliazione in un contesto di adorazione eucaristica. Nel 2018 essa si svolgerà venerdì 9 e sabato 10 marzo, ispirandosi alle parole del Salmo 130,4: «Presso di te è il perdono». In ogni diocesi, almeno una chiesa rimarrà aperta per 24 ore consecutive, offrendo la possibilità della preghiera di adorazione e della Confessione sacramentale.
Nella notte di Pasqua rivivremo il suggestivo rito dell’accensione del cero pasquale: attinta dal “fuoco nuovo”, la luce a poco a poco scaccerà il buio e rischiarerà l’assemblea liturgica. «La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito»,[7] affinché tutti possiamo rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus: ascoltare la parola del Signore e nutrirci del Pane eucaristico consentirà al nostro cuore di tornare ad ardere di fede, speranza e carità.
Vi benedico di cuore e prego per voi. Non dimenticatevi di pregare per me.
Dal Vaticano, 1 novembre 2017
Solennità di Tutti i Santi
Francesco
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA LI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2018
Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace
1. Augurio di pace
Pace a tutte le persone e a tutte le nazioni della terra! La pace, che gli angeli annunciano ai pastori nella notte di Natale,[1] è un’aspirazione profonda di tutte le persone e di tutti i popoli, soprattutto di quanti più duramente ne patiscono la mancanza. Tra questi, che porto nei miei pensieri e nella mia preghiera, voglio ancora una volta ricordare gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Questi ultimi, come affermò il mio amato predecessore Benedetto XVI, «sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace».[2] Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta.
Con spirito di misericordia, abbracciamo tutti coloro che fuggono dalla guerra e dalla fame o che sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale.
Siamo consapevoli che aprire i nostri cuori alla sofferenza altrui non basta. Ci sarà molto da fare prima che i nostri fratelli e le nostre sorelle possano tornare a vivere in pace in una casa sicura. Accogliere l’altro richiede un impegno concreto, una catena di aiuti e di benevolenza, un’attenzione vigilante e comprensiva, la gestione responsabile di nuove situazioni complesse che, a volte, si aggiungono ad altri e numerosi problemi già esistenti, nonché delle risorse che sono sempre limitate. Praticando la virtù della prudenza, i governanti sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, «nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, [per] permettere quell’inserimento».[3] Essi hanno una precisa responsabilità verso le proprie comunità, delle quali devono assicurare i giusti diritti e lo sviluppo armonico, per non essere come il costruttore stolto che fece male i calcoli e non riuscì a completare la torre che aveva cominciato a edificare.[4]
2. Perché così tanti rifugiati e migranti?
In vista del Grande Giubileo per i 2000 anni dall’annuncio di pace degli angeli a Betlemme, San Giovanni Paolo II annoverò il crescente numero di profughi tra le conseguenze di «una interminabile e orrenda sequela di guerre, di conflitti, di genocidi, di “pulizie etniche”»,[5] che avevano segnato il XX secolo. Quello nuovo non ha finora registrato una vera svolta: i conflitti armati e le altre forme di violenza organizzata continuano a provocare spostamenti di popolazione all’interno dei confini nazionali e oltre.
Ma le persone migrano anche per altre ragioni, prima fra tutte il «desiderio di una vita migliore, unito molte volte alla ricerca di lasciarsi alle spalle la “disperazione” di un futuro impossibile da costruire».[6] Si parte per ricongiungersi alla propria famiglia, per trovare opportunità di lavoro o di istruzione: chi non può godere di questi diritti, non vive in pace. Inoltre, come ho sottolineato nell’Enciclica Laudato si’, «è tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale».[7]
La maggioranza migra seguendo un percorso regolare, mentre alcuni prendono altre strade, soprattutto a causa della disperazione, quando la patria non offre loro sicurezza né opportunità, e ogni via legale pare impraticabile, bloccata o troppo lenta.
In molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio. Quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici, anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano.[8]
Tutti gli elementi di cui dispone la comunità internazionale indicano che le migrazioni globali continueranno a segnare il nostro futuro. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace.
3. Con sguardo contemplativo
La sapienza della fede nutre questo sguardo, capace di accorgersi che tutti facciamo «parte di una sola famiglia, migranti e popolazioni locali che li accolgono, e tutti hanno lo stesso diritto ad usufruire dei beni della terra, la cui destinazione è universale, come insegna la dottrina sociale della Chiesa. Qui trovano fondamento la solidarietà e la condivisione».[9] Queste parole ci ripropongono l’immagine della nuova Gerusalemme. Il libro del profeta Isaia (cap. 60) e poi quello dell’Apocalisse (cap. 21) la descrivono come una città con le porte sempre aperte, per lasciare entrare genti di ogni nazione, che la ammirano e la colmano di ricchezze. La pace è il sovrano che la guida e la giustizia il principio che governa la convivenza al suo interno.
Abbiamo bisogno di rivolgere anche sulla città in cui viviamo questo sguardo contemplativo, «ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze [...] promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia»,[10] in altre parole realizzando la promessa della pace.
Osservando i migranti e i rifugiati, questo sguardo saprà scoprire che essi non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio,capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, e in questo modo arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono. Saprà scorgere anche la creatività, la tenacia e lo spirito di sacrificio di innumerevoli persone, famiglie e comunità che in tutte le parti del mondo aprono la porta e il cuore a migranti e rifugiati, anche dove le risorse non sono abbondanti.
Questo sguardo contemplativo, infine, saprà guidare il discernimento dei responsabili della cosa pubblica, così da spingere le politiche di accoglienza fino al massimo dei «limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso»,[11] considerando cioè le esigenze di tutti i membri dell’unica famiglia umana e il bene di ciascuno di essi.
Chi è animato da questo sguardo sarà in grado di riconoscere i germogli di pace che già stanno spuntando e si prenderà cura della loro crescita. Trasformerà così in cantieri di pace le nostre città, spesso divise e polarizzate da conflitti che riguardano proprio la presenza di migranti e rifugiati.
4. Quattro pietre miliari per l’azione
Offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.[12]
“Accogliere” richiama l’esigenza di ampliare le possibilità di ingresso legale, di non respingere profughi e migranti verso luoghi dove li aspettano persecuzioni e violenze, e di bilanciare la preoccupazione per la sicurezza nazionale con la tutela dei diritti umani fondamentali. La Scrittura ci ricorda: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo».[13]
“Proteggere” ricorda il dovere di riconoscere e tutelare l’inviolabile dignità di coloro che fuggono da un pericolo reale in cerca di asilo e sicurezza, di impedire il loro sfruttamento. Penso in particolare alle donne e ai bambini che si trovano in situazioni in cui sono più esposti ai rischi e agli abusi che arrivano fino a renderli schiavi. Dio non discrimina: «Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova».[14]
“Promuovere” rimanda al sostegno allo sviluppo umano integrale di migranti e rifugiati. Tra i molti strumenti che possono aiutare in questo compito, desidero sottolineare l’importanza di assicurare ai bambini e ai giovani l’accesso a tutti i livelli di istruzione: in questo modo essi non solo potranno coltivare e mettere a frutto le proprie capacità, ma saranno anche maggiormente in grado di andare incontro agli altri, coltivando uno spirito di dialogo anziché di chiusura o di scontro. La Bibbia insegna che Dio «ama lo straniero e gli dà pane e vestito»; perciò esorta: «Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto».[15]
“Integrare”, infine, significa permettere a rifugiati e migranti di partecipare pienamente alla vita della società che li accoglie, in una dinamica di arricchimento reciproco e di feconda collaborazione nella promozione dello sviluppo umano integrale delle comunità locali. Come scrive San Paolo: «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio».[16]
5. Una proposta per due Patti internazionali
Auspico di cuore che sia questo spirito ad animare il processo che lungo il 2018 condurrà alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati. In quanto accordi condivisi a livello globale, questi patti rappresenteranno un quadro di riferimento per proposte politiche e misure pratiche. Per questo è importante che siano ispirati da compassione, lungimiranza e coraggio, in modo da cogliere ogni occasione per far avanzare la costruzione della pace: solo così il necessario realismo della politica internazionale non diventerà una resa al cinismo e alla globalizzazione dell’indifferenza.
Il dialogo e il coordinamento, in effetti, costituiscono una necessità e un dovere proprio della comunità internazionale. Al di fuori dei confini nazionali, è possibile anche che Paesi meno ricchi possano accogliere un numero maggiore di rifugiati, o accoglierli meglio, se la cooperazione internazionale assicura loro la disponibilità dei fondi necessari.
La Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ha suggerito 20 punti di azione[17] quali piste concrete per l’attuazione di questi quattro verbi nelle politiche pubbliche, oltre che nell’atteggiamento e nell’azione delle comunità cristiane. Questi ed altri contributi intendono esprimere l’interesse della Chiesa cattolica al processo che porterà all’adozione dei suddetti patti globali delle Nazioni Unite. Tale interesse conferma una più generale sollecitudine pastorale nata con la Chiesa e continuata in molteplici sue opere fino ai nostri giorni.
6. Per la nostra casa comune
Ci ispirano le parole di San Giovanni Paolo II: «Se il “sogno” di un mondo in pace è condiviso da tanti, se si valorizza l’apporto dei migranti e dei rifugiati, l’umanità può divenire sempre più famiglia di tutti e la nostra terra una reale “casa comune”».[18] Molti nella storia hanno creduto in questo “sogno” e quanto hanno compiuto testimonia che non si tratta di una utopia irrealizzabile.
Tra costoro va annoverata Santa Francesca Saverio Cabrini, di cui ricorre nel 2017 il centenario della nascita al cielo. Oggi, 13 novembre, molte comunità ecclesiali celebrano la sua memoria. Questa piccola grande donna, che consacrò la propria vita al servizio dei migranti, diventandone poi la celeste patrona, ci ha insegnato come possiamo accogliere, proteggere, promuovere e integrare questi nostri fratelli e sorelle. Per la sua intercessione il Signore conceda a noi tutti di sperimentare che «un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace».[19]
Dal Vaticano, 13 novembre 2017
Memoria di Santa Francesca Saverio Cabrini, Patrona dei migranti
Francesco
SANTA MESSA
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, 19 novembre 2017
Abbiamo la gioia di spezzare il pane della Parola, e tra poco di spezzare e ricevere il Pane eucaristico, nutrimenti per il cammino della vita. Ne abbiamo bisogno tutti, nessuno escluso, perché tutti siamo mendicanti dell’essenziale, dell’amore di Dio, che ci dà il senso della vita e una vita senza fine. Perciò anche oggi tendiamo la mano a Lui per ricevere i suoi doni.
Proprio di doni parla la parabola del Vangelo. Ci dice che noi siamo destinatari dei talenti di Dio, «secondo le capacità di ciascuno» (Mt 25,15). Prima di tutto riconosciamo questo: abbiamo dei talenti, siamo “talentuosi” agli occhi di Dio. Perciò nessuno può ritenersi inutile, nessuno può dirsi così povero da non poter donare qualcosa agli altri. Siamo eletti e benedetti da Dio, che desidera colmarci dei suoi doni, più di quanto un papà e una mamma desiderino dare ai loro figli. E Dio, ai cui occhi nessun figlio può essere scartato, affida a ciascuno una missione.
Infatti, da Padre amorevole ed esigente qual è, ci responsabilizza. Vediamo che, nella parabola, a ogni servo vengono dati dei talenti da moltiplicare. Ma, mentre i primi due realizzano la missione, il terzo servo non fa fruttare i talenti; restituisce solo quello che aveva ricevuto: «Ho avuto paura – dice – e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (v. 25). Questo servo riceve in cambio parole dure: «malvagio e pigro» (v. 26). Che cosa non è piaciuto al Signore di lui? In una parola, forse andata un po’ in disuso eppure molto attuale, direi: l’omissione. Il suo male è stato quello di non fare il bene. Anche noi spesso siamo dell’idea di non aver fatto nulla di male e per questo ci accontentiamo, presumendo di essere buoni e giusti. Così, però, rischiamo di comportarci come il servo malvagio: anche lui non ha fatto nulla di male, non ha rovinato il talento, anzi l’ha ben conservato sotto terra. Ma non fare nulla di male non basta. Perché Dio non è un controllore in cerca di biglietti non timbrati, è un Padre alla ricerca di figli, cui affidare i suoi beni e i suoi progetti (cfr v. 14). Ed è triste quando il Padre dell’amore non riceve una risposta generosa di amore dai figli, che si limitano a rispettare le regole, ad adempiere i comandamenti, come salariati nella casa del Padre (cfr Lc15,17).
Il servo malvagio, nonostante il talento ricevuto dal Signore, che ama condividere e moltiplicare i doni, l’ha custodito gelosamente, si è accontentato di preservarlo. Ma non è fedele a Dio chi si preoccupa solo di conservare, di mantenere i tesori del passato. Invece, dice la parabola, colui che aggiunge talenti nuovi è veramente «fedele» (vv. 21.23), perché ha la stessa mentalità di Dio e non sta immobile: rischia per amore, mette in gioco la vita per gli altri, non accetta di lasciare tutto com’è. Solo una cosa tralascia: il proprio utile. Questa è l’unica omissione giusta.
L’omissione è anche il grande peccato nei confronti dei poveri. Qui assume un nome preciso: indifferenza. È dire: “Non mi riguarda, non è affar mio, è colpa della società”. È girarsi dall’altra parte quando il fratello è nel bisogno, è cambiare canale appena una questione seria ci infastidisce, è anche sdegnarsi di fronte al male senza far nulla. Dio, però, non ci chiederà se avremo avuto giusto sdegno, ma se avremo fatto del bene.
Come, concretamente, possiamo allora piacere a Dio? Quando si vuole far piacere a una persona cara, ad esempio facendole un regalo, bisogna prima conoscerne i gusti, per evitare che il dono sia più gradito a chi lo fa che a chi lo riceve. Quando vogliamo offrire qualcosa al Signore, troviamo i suoi gusti nel Vangelo. Subito dopo il brano che abbiamo ascoltato oggi, Egli dice: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Questi fratelli più piccoli, da Lui prediletti, sono l’affamato e l’ammalato, il forestiero e il carcerato, il povero e l’abbandonato, il sofferente senza aiuto e il bisognoso scartato. Sui loro volti possiamo immaginare impresso il suo volto; sulle loro labbra, anche se chiuse dal dolore, le sue parole: «Questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Nel povero Gesù bussa al nostro cuore e, assetato, ci domanda amore. Quando vinciamo l’indifferenza e nel nome di Gesù ci spendiamo per i suoi fratelli più piccoli, siamo suoi amici buoni e fedeli, con cui Egli ama intrattenersi. Dio lo apprezza tanto, apprezza l’atteggiamento che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, quello della «donna forte» che «apre le sue palme al misero, stende la mano al povero» (Pr 31,10.20). Questa è la vera fortezza: non pugni chiusi e braccia conserte, ma mani operose e tese verso i poveri, verso la carne ferita del Signore.
Lì, nei poveri, si manifesta la presenza di Gesù, che da ricco si è fatto povero (cfr 2 Cor 8,9). Per questo in loro, nella loro debolezza, c’è una “forza salvifica”. E se agli occhi del mondo hanno poco valore, sono loro che ci aprono la via al cielo, sono il nostro “passaporto per il paradiso”. Per noi è dovere evangelico prenderci cura di loro, che sono la nostra vera ricchezza, e farlo non solo dando pane, ma anche spezzando con loro il pane della Parola, di cui essi sono i più naturali destinatari. Amare il povero significa lottare contro tutte le povertà, spirituali e materiali.
E ci farà bene: accostare chi è più povero di noi toccherà la nostra vita. Ci ricorderà quel che veramente conta: amare Dio e il prossimo. Solo questo dura per sempre, tutto il resto passa; perciò quel che investiamo in amore rimane, il resto svanisce. Oggi possiamo chiederci: “Che cosa conta per me nella vita, dove investo?” Nella ricchezza che passa, di cui il mondo non è mai sazio, o nella ricchezza di Dio, che dà la vita eterna? Questa scelta è davanti a noi: vivere per avere in terra oppure dare per guadagnare il cielo. Perché per il cielo non vale ciò che si ha, ma ciò che si dà, e «chi accumula tesori per sé non si arricchisce presso Dio» (Lc12,21). Non cerchiamo allora il superfluo per noi, ma il bene per gli altri, e nulla di prezioso ci mancherà. Il Signore, che ha compassione delle nostre povertà e ci riveste dei suoi talenti, ci doni la sapienza di cercare ciò che conta e il coraggio di amare, non a parole ma coi fatti.
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
I GIORNATA MONDIALE DEI POVERI
Domenica XXXIII del Tempo Ordinario
19 novembre 2017
Non amiamo a parole ma con i fatti
1. «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1 Gv 3,18). Queste parole dell’apostolo Giovanni esprimono un imperativo da cui nessun cristiano può prescindere. La serietà con cui il “discepolo amato” trasmette fino ai nostri giorni il comando di Gesù è resa ancora più accentuata per l’opposizione che rileva tra le parole vuote che spesso sono sulla nostra bocca e i fatti concreti con i quali siamo invece chiamati a misurarci. L’amore non ammette alibi: chi intende amare come Gesù ha amato, deve fare proprio il suo esempio; soprattutto quando si è chiamati ad amare i poveri. Il modo di amare del Figlio di Dio, d’altronde, è ben conosciuto, e Giovanni lo ricorda a chiare lettere. Esso si fonda su due colonne portanti: Dio ha amato per primo (cfr 1 Gv 4,10.19); e ha amato dando tutto sé stesso, anche la propria vita (cfr 1 Gv 3,16).
Un tale amore non può rimanere senza risposta. Pur essendo donato in maniera unilaterale, senza richiedere cioè nulla in cambio, esso tuttavia accende talmente il cuore che chiunque si sente portato a ricambiarlo nonostante i propri limiti e peccati. E questo è possibile se la grazia di Dio, la sua carità misericordiosa viene accolta, per quanto possibile, nel nostro cuore, così da muovere la nostra volontà e anche i nostri affetti all’amore per Dio stesso e per il prossimo. In tal modo la misericordia che sgorga, per così dire, dal cuore della Trinità può arrivare a mettere in movimento la nostra vita e generare compassione e opere di misericordia per i fratelli e le sorelle che si trovano in necessità.
2. «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (Sal 34,7). Da sempre la Chiesa ha compreso l’importanza di un tale grido. Possediamo una grande testimonianza fin dalle prime pagine degli Atti degli Apostoli, là dove Pietro chiede di scegliere sette uomini «pieni di Spirito e di sapienza» (6,3) perché assumessero il servizio dell’assistenza ai poveri. È certamente questo uno dei primi segni con i quali la comunità cristiana si presentò sulla scena del mondo: il servizio ai più poveri. Tutto ciò le era possibile perché aveva compreso che la vita dei discepoli di Gesù doveva esprimersi in una fraternità e solidarietà tali, da corrispondere all’insegnamento principale del Maestro che aveva proclamato i poveri beati ed eredi del Regno dei cieli (cfr Mt 5,3).
«Vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,45). Questa espressione mostra con evidenza la viva preoccupazione dei primi cristiani. L’evangelista Luca, l’autore sacro che più di ogni altro ha dato spazio alla misericordia, non fa nessuna retorica quando descrive la prassi di condivisione della prima comunità. Al contrario, raccontandola intende parlare ai credenti di ogni generazione, e quindi anche a noi, per sostenerci nella testimonianza e provocare la nostra azione a favore dei più bisognosi. Lo stesso insegnamento viene dato con altrettanta convinzione dall’apostolo Giacomo, che, nella sua Lettera, usa espressioni forti ed incisive: «Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disonorato il povero! Non sono forse i ricchi che vi opprimono e vi trascinano davanti ai tribunali? [...] A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta» (2,5-6.14-17).
3. Ci sono stati momenti, tuttavia, in cui i cristiani non hanno ascoltato fino in fondo questo appello, lasciandosi contagiare dalla mentalità mondana. Ma lo Spirito Santo non ha mancato di richiamarli a tenere fisso lo sguardo sull’essenziale. Ha fatto sorgere, infatti, uomini e donne che in diversi modi hanno offerto la loro vita a servizio dei poveri. Quante pagine di storia, in questi duemila anni, sono state scritte da cristiani che, in tutta semplicità e umiltà, e con la generosa fantasia della carità, hanno servito i loro fratelli più poveri!
Tra tutti spicca l’esempio di Francesco d’Assisi, che è stato seguito da numerosi altri uomini e donne santi nel corso dei secoli. Egli non si accontentò di abbracciare e dare l’elemosina ai lebbrosi, ma decise di andare a Gubbio per stare insieme con loro. Lui stesso vide in questo incontro la svolta della sua conversione: «Quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo» (Test 1-3: FF 110). Questa testimonianza manifesta la forza trasformatrice della carità e lo stile di vita dei cristiani.
Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita. Infatti, la preghiera, il cammino del discepolato e la conversione trovano nella carità che si fa condivisione la verifica della loro autenticità evangelica. E da questo modo di vivere derivano gioia e serenità d’animo, perché si tocca con mano la carne di Cristo. Se vogliamo incontrare realmente Cristo, è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri, come riscontro della comunione sacramentale ricevuta nell’Eucaristia. Il Corpo di Cristo, spezzato nella sacra liturgia, si lascia ritrovare dalla carità condivisa nei volti e nelle persone dei fratelli e delle sorelle più deboli. Sempre attuali risuonano le parole del santo vescovo Crisostomo: «Se volete onorare il corpo di Cristo, non disdegnatelo quando è nudo; non onorate il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascurate quest’altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità» (Hom. in Matthaeum, 50, 3: PG 58).
Siamo chiamati, pertanto, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, abbracciarli, per far sentire loro il calore dell’amore che spezza il cerchio della solitudine. La loro mano tesa verso di noi è anche un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce.
4. Non dimentichiamo che per i discepoli di Cristo la povertà è anzitutto una vocazione a seguire Gesù povero. È un cammino dietro a Lui e con Lui, un cammino che conduce alla beatitudine del Regno dei cieli (cfr Mt 5,3; Lc 6,20). Povertà significa un cuore umile che sa accogliere la propria condizione di creatura limitata e peccatrice per superare la tentazione di onnipotenza, che illude di essere immortali. La povertà è un atteggiamento del cuore che impedisce di pensare al denaro, alla carriera, al lusso come obiettivo di vita e condizione per la felicità. E’ la povertà, piuttosto, che crea le condizioni per assumere liberamente le responsabilità personali e sociali, nonostante i propri limiti, confidando nella vicinanza di Dio e sostenuti dalla sua grazia. La povertà, così intesa, è il metro che permette di valutare l’uso corretto dei beni materiali, e anche di vivere in modo non egoistico e possessivo i legami e gli affetti (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 25-45).
Facciamo nostro, pertanto, l’esempio di san Francesco, testimone della genuina povertà. Egli, proprio perché teneva fissi gli occhi su Cristo, seppe riconoscerlo e servirlo nei poveri. Se, pertanto, desideriamo offrire il nostro contributo efficace per il cambiamento della storia, generando vero sviluppo, è necessario che ascoltiamo il grido dei poveri e ci impegniamo a sollevarli dalla loro condizione di emarginazione. Nello stesso tempo, ai poveri che vivono nelle nostre città e nelle nostre comunità ricordo di non perdere il senso della povertà evangelica che portano impresso nella loro vita.
5. Conosciamo la grande difficoltà che emerge nel mondo contemporaneo di poter identificare in maniera chiara la povertà. Eppure, essa ci interpella ogni giorno con i suoi mille volti segnati dal dolore, dall’emarginazione, dal sopruso, dalla violenza, dalle torture e dalla prigionia, dalla guerra, dalla privazione della libertà e della dignità, dall’ignoranza e dall’analfabetismo, dall’emergenza sanitaria e dalla mancanza di lavoro, dalle tratte e dalle schiavitù, dall’esilio e dalla miseria, dalla migrazione forzata. La povertà ha il volto di donne, di uomini e di bambini sfruttati per vili interessi, calpestati dalle logiche perverse del potere e del denaro. Quale elenco impietoso e mai completo si è costretti a comporre dinanzi alla povertà frutto dell’ingiustizia sociale, della miseria morale, dell’avidità di pochi e dell’indifferenza generalizzata!
Ai nostri giorni, purtroppo, mentre emerge sempre più la ricchezza sfacciata che si accumula nelle mani di pochi privilegiati, e spesso si accompagna all’illegalità e allo sfruttamento offensivo della dignità umana, fa scandalo l’estendersi della povertà a grandi settori della società in tutto il mondo. Dinanzi a questo scenario, non si può restare inerti e tanto meno rassegnati. Alla povertà che inibisce lo spirito di iniziativa di tanti giovani, impedendo loro di trovare un lavoro; alla povertà che anestetizza il senso di responsabilità inducendo a preferire la delega e la ricerca di favoritismi; alla povertà che avvelena i pozzi della partecipazione e restringe gli spazi della professionalità umiliando così il merito di chi lavora e produce; a tutto questo occorre rispondere con una nuova visione della vita e della società.
Tutti questi poveri – come amava dire il Beato Paolo VI – appartengono alla Chiesa per «diritto evangelico» (Discorso di apertura della II sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 29 settembre 1963) e obbligano all’opzione fondamentale per loro. Benedette, pertanto, le mani che si aprono ad accogliere i poveri e a soccorrerli: sono mani che portano speranza. Benedette le mani che superano ogni barriera di cultura, di religione e di nazionalità versando olio di consolazione sulle piaghe dell’umanità. Benedette le mani che si aprono senza chiedere nulla in cambio, senza “se”, senza “però” e senza “forse”: sono mani che fanno scendere sui fratelli la benedizione di Dio.
6. Al termine del Giubileo della Misericordia ho voluto offrire alla Chiesa la Giornata Mondiale dei Poveri, perché in tutto il mondo le comunità cristiane diventino sempre più e meglio segno concreto della carità di Cristo per gli ultimi e i più bisognosi. Alle altre Giornate mondiali istituite dai miei Predecessori, che sono ormai una tradizione nella vita delle nostre comunità, desidero che si aggiunga questa, che apporta al loro insieme un elemento di completamento squisitamente evangelico, cioè la predilezione di Gesù per i poveri.
Invito la Chiesa intera e gli uomini e le donne di buona volontà a tenere fisso lo sguardo, in questo giorno, su quanti tendono le loro mani gridando aiuto e chiedendo la nostra solidarietà. Sono nostri fratelli e sorelle, creati e amati dall’unico Padre celeste. QuestaGiornata intende stimolare in primo luogo i credenti perché reagiscano alla cultura dello scarto e dello spreco, facendo propria la cultura dell’incontro. Al tempo stesso l’invito è rivolto a tutti, indipendentemente dall’appartenenza religiosa, perché si aprano alla condivisione con i poveri in ogni forma di solidarietà, come segno concreto di fratellanza. Dio ha creato il cielo e la terra per tutti; sono gli uomini, purtroppo, che hanno innalzato confini, mura e recinti, tradendo il dono originario destinato all’umanità senza alcuna esclusione.
7. Desidero che le comunità cristiane, nella settimana precedente la Giornata Mondiale dei Poveri, che quest’anno sarà il 19 novembre, XXXIII domenica del Tempo Ordinario, si impegnino a creare tanti momenti di incontro e di amicizia, di solidarietà e di aiuto concreto. Potranno poi invitare i poveri e i volontari a partecipare insieme all’Eucaristia di questa domenica, in modo tale che risulti ancora più autentica la celebrazione della Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo, la domenica successiva. La regalità di Cristo, infatti, emerge in tutto il suo significato proprio sul Golgota, quando l’Innocente inchiodato sulla croce, povero, nudo e privo di tutto, incarna e rivela la pienezza dell’amore di Dio. Il suo abbandonarsi completamente al Padre, mentre esprime la sua povertà totale, rende evidente la potenza di questo Amore, che lo risuscita a vita nuova nel giorno di Pasqua.
In questa domenica, se nel nostro quartiere vivono dei poveri che cercano protezione e aiuto, avviciniamoci a loro: sarà un momento propizio per incontrare il Dio che cerchiamo. Secondo l’insegnamento delle Scritture (cfr Gen 18,3-5; Eb 13,2), accogliamoli come ospiti privilegiati alla nostra mensa; potranno essere dei maestri che ci aiutano a vivere la fede in maniera più coerente. Con la loro fiducia e disponibilità ad accettare aiuto, ci mostrano in modo sobrio, e spesso gioioso, quanto sia decisivo vivere dell’essenziale e abbandonarci alla provvidenza del Padre.
8. A fondamento delle tante iniziative concrete che si potranno realizzare in questa Giornata ci sia sempre la preghiera. Non dimentichiamo che il Padre nostro è la preghiera dei poveri. La richiesta del pane, infatti, esprime l’affidamento a Dio per i bisogni primari della nostra vita. Quanto Gesù ci ha insegnato con questa preghiera esprime e raccoglie il grido di chi soffre per la precarietà dell’esistenza e per la mancanza del necessario. Ai discepoli che chiedevano a Gesù di insegnare loro a pregare, Egli ha risposto con le parole dei poveri che si rivolgono all’unico Padre in cui tutti si riconoscono come fratelli. Il Padre nostro è una preghiera che si esprime al plurale: il pane che si chiede è “nostro”, e ciò comporta condivisione, partecipazione e responsabilità comune. In questa preghiera tutti riconosciamo l’esigenza di superare ogni forma di egoismo per accedere alla gioia dell’accoglienza reciproca.
9. Chiedo ai confratelli vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi – che per vocazione hanno la missione del sostegno ai poveri –, alle persone consacrate, alle associazioni, ai movimenti e al vasto mondo del volontariato di impegnarsi perché con questa Giornata Mondiale dei Poveri si instauri una tradizione che sia contributo concreto all’evangelizzazione nel mondo contemporaneo.
Questa nuova Giornata Mondiale, pertanto, diventi un richiamo forte alla nostra coscienza credente affinché siamo sempre più convinti che condividere con i poveri ci permette di comprendere il Vangelo nella sua verità più profonda. I poveri non sono un problema: sono una risorsa a cui attingere per accogliere e vivere l’essenza del Vangelo.
Dal Vaticano, 13 giugno 2017
ESORTAZIONE APOSTOLICA
EVANGELII GAUDIUM
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI VESCOVI AI PRESBITERI E AI DIACONI ALLE PERSONE CONSACRATE E AI FEDELI LAICI SULL' ANNUNCIO DEL VANGELONEL MONDO ATTUALE
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Enciclica del papa Francesco "Laudato si, sulla cura della casa comune"
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lettera apostolica del Papa Francesco
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Lettera Apostolica del Papa Francesco
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