CITTADINI DI CAPRAROLA FAMOSI PER OPERE ED ATTIVITA'
COLA DI MATTEUCCIO DA CAPRAROLA
Nacque a Caprarola (Viterbo), come testimoniano le dizioni "de Craperola", "de Caprarola diocesis Civitatis Castellane", che seguono il nome nei documenti che lo riguardano, ciò che dimostra, altresì, come egli abbia conservato l'iscrizione alla cittadinanza della città natale pur nelle continue e prolungate permanenze in altri luoghi. Fu imprenditore ed architetto, e la sua attività è documentata in vari cantieri dell'Italia centrale tra la fine del XV sec. e il primo ventennio del XVI.
Cola è menzionato per la prima volta nel 1499 (Müntz, 1892: una inesatta lettura del passo del Müntz ha indotto gli scrittori successivi a inserire l'artista in precedenti lavori compiuti nel 1494) in un documento relativo a opere di sistemazione della Rocca di Nepi, unitamente ad Antonio da Sangallo il Vecchio. In esso è definito lignarius: la qualifica è preceduta dal termine magister, chiaro indizio di una consolidata posizione professionale, che potrebbe permettere di fissare la data della sua nascita intorno aglianni 1470, in considerazione anche del fatto che nell'ultimo documento noto, del 1519, C. è nominato castellano della Rocca di Porto Ercole, incarico che certamente veniva affidato ad uomini fisicamente ancora prestanti.
Nel 1872 il Rossi pubblicò documenti relativi all'attività di Cola per la costruzione della chiesa della Consolazione a Todi: da essi fu indotto a considerarlo oltre che realizzatore anche progettista del tempio tudertino, troncando così una tradizione basata su di un passo di una "sacra visita" del 1574 che, riferendosi ai completamenti da eseguire, sosteneva che l'edificio "perficeretur juxta il modello quod conspicitur a perito Architecto Bramante nuncupato, designatum" (Rossi, 1874).
Ma la critica architettonica più autorevole, dal Venturi al De Angelis d'Ossat, dal Bruschi al Lotz, è tutta concorde, seppur con argomentazioni variate, nel considerare Cola solo un esecutore - a cui d'altronde vanno riconosciute capacità tecnica e sensibilità progettuale - del tempio della Consolazione di Todi, "ideato con un senso di matura e ampia spazialità, ed una grandiosità essenziale ed organica" (De Angelis d'Ossat, 1956, p. 207) riconducibili in quel momento soltanto a Bramante. Già nel secolo scorso il Geymüller (1875, p. 96) aveva fatto notare il contrasto fra l'impianto e l'intelaiatura architettonica dell'edificio: "mais les proportions des deux ordres et des grands pilastres sont de nature à nous persuader que les dispositions adoptées par Bramantes ont subi un changement considérable".
Soltanto a datare dal 18 ott. 1510 fino al 18 maggio 1512nei vari documenti Cola è definito "architector", "architettore", "architector et coptimarius" e altro (Rossi, 1872, pp. 4s.), con una appendice nel 1515 quando ancora in un atto del 9 dicembre è chiamato "architector fabrice sancte Marie Consolationis extra muros Tuderti" (Zänker, 1974, nota 15 a p. 605).
Che Cola, così come gli altri "magistri" e architetti che si sono succeduti nel cantiere della Consolazione, abbia modificato l'idea iniziale - e in definitiva quindi anche progettato - si può individuare, come suggerisce il Bonagura (1974, p. 626), nella probabile variazione dell'idea delle absidi circolari (una delle quali è stata realizzata) in absidi poligonali.
Una certa capacità progettuale e le doti imprenditoriali e organizzative probabilmente furono le ragioni per cui C. fu chiamato "in instaurationem et ornamentum ecclesie S. Felitiani [duomo] di Foligno ove egli comincia a comparire fin dal primo documento del 27 dic. 1512 relativo a tali lavori, e subito con la qualifica di "architectore" (Rossi, 1877, p. 343) a cui si aggiungono, nei documenti immediatamente successivi, attributi come "clarus", per culminare nel giudizio di molte autorevoli persone ("cum relatu multorum prestantium virorum") che dichiarano "magistrum Colam architectum prestantem... probatumque virum et honoris cupidum" (Rossi, 1877, pp. 343, 345).
Ciò che Cola propone per attualizzare l'antico edificio romanico-gotico della cattedrale, e che facilmente gli si può ascrivere come ideazione, è di realizzare una spazialità meno frammentata in episodi autonomi o eccessivamente ritmata, bensì unitaria e in un certo senso accostabile a quella della Consolazione di Todi. Il procedimento è descritto nel contratto del 30 dic. 1512 (Rossi, 1877, pp. 346 s.): "fare tutto il muro che bisogna in dicta chiesa" (probabilmente per costituire un'unica navata), "fare le base et cimase di ciascun pilastro... ad forma sonno quelle della Tribuna" (nel dettaglio Cola è obbligato a prendere a modello elementi dell'antica chiesa o per lo meno realizzati precedentemente alla sua chiamata), "scarcare tutte le volte et mura necessarie et tecte" e sostituirle con "cinque volte ad cruciere" (dovrebbero essere quelle che compaiono nel disegno degli Uffizi A 878r di Antonio da Sangallo il Giovane).
Ad offuscare in parte la fama di Cola avvenne nell'ottobre del 1513 il crollo di una volta del duomo di Foligno; "il caso della volta quale è stato per la fortuna dell’acqua et como sapete la volta fo despontellata per satisfare ad molti": così si ricava dalle parole di C. che con piena sicurezza si impegnò a ricostruire a sue spese tale volta posta "in brachio iuxta plateam veterem", nonché a sottoporre a giudizio di un altro architetto quanto realizzato ed eventualmente a seguirne le direttive (Rossi, 1877, pp. 351, 352, 354).
L'attività di Cola presso il duomo di Foligno dovette cessare intorno al dicembre del 1515, quando liquidò due muratori suoi creditori (Rossi, 1877, p. 357), poiché non lo si trova più citato nei documenti. Circa la notizia della sua presenza nella realizzazione del campanile di Spoleto (ripresa da Zänker, 1971, p. 263), questa dovrebbe essere scartata in quanto il Sansi, sulla base di documenti, mostra che i lavori furono deliberati nel 1510 e compiuti nel 1515 da mastro Cione di Taddeo lombardo (Giovan Pietro Cione; cfr. Storia del Comune di Spoleto, Foligno 1884, II, p. 169).
Da quanto si può ricavare dai documenti sulla Consolazione e da quelli sul duomo di Foligno sembrerebbe che C. limitasse i suoi interventi alla parte più propriamente costruttiva, quella che vedeva un'organizzazione di cantiere di una certa importanza.
Probabilmente, sulla base di tale assunto, Cola si è spostato altrove in cerca di una nuova commessa di lavoro: nel 1518 lo si ritrova a Roma, come risulta da una convenzione con Agostino Chigi redatta il 22 marzo: "Magnificus vir d. Augustinus de Chisijs... et Magister Cola Mathucijs de Caprarola Civitatis Castellan. diocesis architector partibus supra constructione erectione et edificatione cuiusdam arcis in loco portus Herculis" (Cugnoni, 1883, p. 166). Ed è proprio da quanto è scritto nei passi successivi della convenzione che si evince come l'attività specifica di C. fosse quella di impresario-costruttore, il quale "debeat ... construere erigere et edificare... et perficere unam arcem iuxta et secundum designatam et specificatam cuiusdam modelli per dominum Magnificum... dandum et consignandum eidem magistro Cole" (ibid.). Si può avanzare l'ipotesi che il progetto della fortezza, dal cui nucleo si originò quella detta attualmente "La Rocca", possa essere stato redatto da Baldassarre Peruzzi, tanto più che si conserva (Siena, Bibl. com., ms. L.IV.10) un disegno di M. A. Lari, seguace del Peruzzi, che riproduce un ulteriore ampliamento della rocca (pubblicato da P. Marconi, in Quaderni dell'Ist. di storia dell'architettura, XV [1968], 85-90, p. 79).
Cola che secondo la convenzione doveva realizzare l'opera in due anni, probabilmente la terminò prima, forse nelle strutture generali, e Agostino Chigi dovette rimanere talmente soddisfatto che in un documento del 13 ott. 1519 si dichiara convinto "de legalitate et fidelitate Nobilis viri Dni Colae Mathucij de Caprarola" e perciò lo crea castellano della stessa Rocca "cum salario et mercede" (Cugnoni, 1883, p. 167).
Con questo documento finiscono le notizie su Cola; dato che nell'aprile del 1521, morendo Agostino, la situazione e la gestione patrimoniale del Chigi rapidamente si indebolisce, è legittimo ritenere che anche Cola, con la perdita del protettore abbia ripreso a peregrinare o forse anche sia ritornato nella sua terra d'origine.
ERCOLE BERNABEI
Nato a Caprarola (Viterbo) nel 1622 circa, si dedicò giovanissimo allo studio della musica. Trasferitosi a Roma, ebbe come maestro di composizione Orazio Benevoli, insigne compositore della scuola romana. In questo periodo il B. fu allievo anche di Antonio Pastorelli, cantore di S. Luigi de' Francesi. Probabilmente durante gli anni di permanenza a Roma ebbe frequenti contatti con la scuola di G. Carissimi, di cui facevano parte anche M. Cesti e A. Scarlatti, ed è possibile che, introdotto nelle case dei Chigi, degli Orsini e dei Barberini, abbia avuto modo di avviare la sua formazione teatrale assistendo alle rappresentazioni che venivano offerte nelle dimore principesche della Roma papale. Molto giovò alla preparazione musicale del B. l'audizione di oratori e di composizioni sacre che tanto frequentemente venivano eseguite all'oratorio del SS. Crocifisso in S. Marcello e alla chiesa di S. Maria in Vallicella; inoltre, proprio in questo periodo, ebbe modo di assistere agli spettacoli del Teatro Tor di Nona, che era stato inaugurato nel 1661 con l'opera Alessandro vincitor di se stesso di F. Cavalli. In questi anni frequentò anche la corte della regina Cristina di Svezia, dalla quale ebbe protezione e incoraggiamenti. La prima data sicura della sua attività artistica risale al 1° giugno 1653, giorno in cui venne assunto come organista nella cappella di S. Luigi de' Francesi, con lo stipendio mensile di quattro scudi. Tale carica dimostra di quale stima godesse negli ambienti musicali, poiché succedeva direttamente a Luigi Rossi, e suoi predecessori nell'incarico erano stati musicisti di grande fama, come i due Nanino, Giovanni Maria e Giovanni Bernardino, R. Giovannelli e il Benevoli. A S. Luigi rimase per dodici anni e cioè fino al. 1665; tuttavia già prima si era dedicato all'attività di compositore e aveva scritto alcune cantate che figurano in un libro manoscritto in possesso di casa Orsini, ora conservato al British Museum (H. Wessely-Kropik, p. 87) Nella lista dei pagamenti di questi anni a S. Luigi de' Francesi (e precisamente 1653, 1658 e 1659) il B. è indicato anche con il nome di Ercole Pastorelli: ciò farebbe pensare che i suoi rapporti con il maestro fossero molto familiari e che, oltre all'insegnamento, avesse da lui anche protezione; secondo il De Rensis, invece, egli sarebbe stato parente di un Pastorelli che forse gli avrebbe impartito delle lezioni. In questo periodo (1663) il B. fece parte anche della Congregazione di S. Cecilia come "guardiano" (specie di sovrintendente) della sezione degli organisti; più tardi, nel 1670, divenne "guardiano" della sezione dei maestri, succedendo nell'incarico ad Antonio Maria Abbatini. Il 4 luglio 1665 (e non nel 1662, come indicano erratamente il Baini, il Fétis e altri storici posteriori) il B. fu nominato maestro di cappella nella basilica di S. Giovanni in Laterano, importante posto che era stato occupato fino a circa un mese prima da Giuseppe Corsi, e che egli tenne fino al 5 marzo 1667, quando tornò nuovamente a S. Luigi de' Francesi in qualità di maestro di cappella, dopo aver vinto una gara "inter plures concurrentis" (sic), come si legge nel decreto di nomina datato 6 marzo 1667 (citato dal De Rensis).Nel decreto il B. figura raccomandato dall'ambasciatore francese Charles Albert d'Ailly duca di Chaulnes e soprattutto dall'uscente maestro di cappella, l'Abbatini; viene considerato, inoltre, il fatto che per molti anni era stato organista della stessa chiesa. Il suo stipendio mensile era di 11 scudi, oltre a un regalo di 6 scudi a Natale e un altro di 1o scudi per la festa di s. Ludovico, in occasione della funzione che aveva luogo "con la massima pompa alla presenza di ambasciatori e cardinali" (Cametti, p. 1), e che sotto il magistero del B. fu celebrata con la partecipazione di quattro cori e numerosi cantori e strumentisti, che arrivarono al numero di quarantadue.Durante questi anni è da supporre anche un probabile servizio del B. presso il principe Flavio Orsini, duca di Bracciano, cui dedicò il Concerto madrigalesco a tre voci diverse (Roma 1669, A. Belmonte), ricordando nella dedica i suoi "singolari favori e gratie ".
Documentata è, invece, la sua contemporanea attività in altre chiese romane: dal marzo 1665 egli appare, infatti, come organista del secondo coro all'oratorio del SS. Crocifisso in S. Marcello (con uno scudo di onorario); il 2 marzo 1668 figura anche come maestro di cappella per il secondo oratorio ivi eseguito, forse di sua composizione. Si può presumere, inoltre, che fosse anche l'organista della stessa arciconfraternita del SS. Crocifisso, poiché accompagnava talvolta i vespri solenni (167o e 1671).A S. Luigi il B. rimase fino al giugno giugno 1672: essendo morto infatti il 17 giugno di quell'anno il suo maestro O. Benevoli, venne chiamato tre giorni dopo a succedergli nel posto di maestro di cappella alla cappella Giulia in Vaticano, come si rileva dal decreto di nomina (Arch. Cap. S. Petri in Vat.,Arm. XV, vol. 15, Decreti, f. 94 r., 1668-1681), dal quale si ha inoltre prova che egli godeva della stima e della protezione di Cristina di Svezia. Del nuovo posto prese possesso con lo stipendio di 15 scudi mensili. Sebbene occupasse una così alta carica in Vaticano, il B. continuò, tuttavia, la sua attività di organista del secondo coro nei consueti cinque oratori eseguiti, dal febbraio al marzo 1674, in S. Marcello, dove l'arciconfraternita del SS. Crocifisso, sotto la protezione del cardinale Flavio Chigi, aveva già nel 1673 iniziato i preparativi per il giubileo del 1675. Probabilmente fra il 1673 e il 1674 il B. dovette comporre l'oratorio per l'anno santo Regina Ester liberatrice del popolo Ebreo,che venne successivamente eseguito il 27 di febbr. 1675 nell'oratorio dell'arciconfratemita della Pietà della nazione fiorentina a S. Giovanni (dei Fiorentini). Questa arciconfraternita celebrò il giubileo facendo eseguire, dal 13 genn. al 16 apr. 1675, quattordici oratori musicati dai più rinomati maestri di allora: A. Masini, B. Pasquini, A. Melani, G. B. Di Pio e A. Stradella, oltre al Bernabei. Ormai la fama del B. si era diffusa anche all'estero, tanto che appena due anni dopo la sua nomina nella cappella Gitilia in Vaticano, quando J. K. Kerll,lasciò il servizio alla corte di Monaco, egli venne scelto dall'elettore Ferdinando Maria di Baviera come suo successore nella carica di maestro di cappella. Partito l'8 maggio 1674, il B. giunse a Monaco, munito di una commendatizia del cardinale Carlo Barberini, e trovò nella capitale bavarese ottime accoglienze, anche perché la, musica italiana dominava nell'ambiente di corte (come, del resto, avveniva a Dresda e nelle altre corti tedesche e austriache), che fin dal 1568 aveva accolto opere e artisti italiani. In particolare, durante il principato di Ferdinando Maria e di sua moglie Adelaide di Savoia, era stato favorito il teatro d'opera italiano, iniziato con la rappresentazione, il 12 febbr. 1654, del primo vero dramma per musica, La Ninfa ritrosa,di anonimo. Era naturale che in tale ambiente il B. avesse la possibilità di manifestare liberamente il suo talento. Tuttavia il Kerll, come narra il Rudhart, invidioso del suo successore, cercò di metterlo nell'imbarazzo scrivendo per il concerto d'inaugurazione un duetto per due castrati così difficile da costringere i cantanti a stonare; ma il B. riuscì, con la sua grande abilità, ad evitare un ridicolo insuccesso.Nel decreto di nomina, redatto poco dopo (30 giugno 1674) in lingua tedesca e italiana, è evidente, oltre la stima verso il B. presentato come un maestro "von gueten Qualitäten und grosser Perfection ", l'eco di questo tiro del Kerll e forse di altri incidenti simili, poiché in un brano del testo italiano si esortano tutti i musicisti a "prestargli obbedienza, senza che alcuno ardisca contrariarlo… ò di moteggiarlo, e molto meno oltraggiarlo in, ò fuora di Cappella, ò Camera; ne in fatti, ne in parole; e ciò sotto pena inevitabile della disgratia di S.E.A.; siccurissimi i disobbedienti di provarne senza remissione, ò riguardo gli effetti" (KirchenmusikalischesYarbuch,XVI [1891], p. 75).
Il 25 luglio 1674, circa un mese dopo la nomina, lo stipendio del B., che nel frattempo si era acquistato grande stima e simpatia presso la corte bavarese, fu fissato in 1180 fiorini e altri 243 "per il vino ". Con un decreto del 2o novembre gli venne successivamente anche conferito il titolo di consigliere di corte, e con un altro del 27 ott. 1677 ottenne altri 6o fiorini per lavori speciali prima eseguiti da un certo B. Giusani. Il B. non deluse i suoi protettori e fino alla morte vide aumentare la sua reputazione per le opere che, con incessante attività, andava producendo, e per il suo buon servizio. Morì a Monaco il 4 0 il 5 dic. 1687, poiché fu sepolto il 6 dicembre nella chiesa di corte di S. Gaetano.
Il Baini, il Fétis e altri sostennero, erratamente, che il B. fosse morto nel 169o: nel 1688, infatti, gli successe nella carica alla corte bavarese il figlio Giuseppe Antonio e tale successione non sarebbe certo avvenuta se egli fosse stato ancora in vita (e di questoavviso era anche il Burney).
A testimonianza del suo ottimo insegnamento, si ricorda che fra i suoi allievi, oltre ai figli Giuseppe Antonio e Vincenzo, ebbe anche A. Steffani.Della produzione del B. - che dovette essere cospicua - molte composizioni sono andate perdute, alcune sono d'incerta attribuzione, ma altre rimaste non sono "mai del tutto scomparse dal repertorio delle cappelle di Roma e di Monaco" (Encicl. della Musica Ricordi). Da queste poche composizioni, giunte fino a noi ancora inedite (ad. eccezione dei già citato Concerto madrigalesco del 1669, delle Sacrae modulationes. Opus Il, stampate postume a Monaco nel 1691 per i tipi di L. Straub a cura del figlio Giuseppe Antonio, e di una raccolta di Motetti a tre e quattro voci con e senza istrumenti, pubblicata ad Amsterdam nel 172o), è possibile avere un'idea abbastanza chiara delle capacità creative dei B., sia nel campo religioso sia in quello profano, e della stima riscossa durante tutta la sua vita. Degno allievo del Benevoli, il B. si distinse per la facilità nel trattare lo stile polifonico a più parti; egli non soltanto mantenne la grande tradizione della scuola romana su un piano di grande dignità, ma seppe evitare artifizi esagerati - come era nello stile del suo tempo - e infondere in essa la propria genialità influenzata dalle esigenze artistiche dei tempi nuovi, da lui intuite e preannunciate.Il Fétis cita, come esempio della sua abilità polifonica, un Dixit a otto voci reali con istrumenti composto a Monaco nel 1678e ritenuto un capolavoro del genere. Tuttavia la fama del B. resta legata al tentativo, in gran parte riuscito, di donare al canto una nuova forza espressiva, piegando il suono alle esigenze della parola (caratteristica in lui l'accurata scelta del testo, ad esempio, nelle cantate) e infondendo alla monodia un calore espressivo e una drammaticità che ricordano G. Carissimi e B. Marcello. Questo spirito di modernità, evidente nella sua musica ecclesiastica e in quella profana, dovette forse comparire anche nella produzione teatrale, sebbene inessa un frequente ricorso a espedienti spettacolari denotasse un legame ancora forte con la precedente tradizione operistica. Il B. ebbe, comunque, il merito di aver diffuso in Germania lo stile italiano, di aver recato nuovo contributo alla musica religiosa e, soprattutto, di aver formato musicisti d'indubbio valore.Delle composizioni religiose manoscritte del B. il Baini citava salmi, offertori e messe che dovevano trovarsi a Roma nell'Archivio della cappella Giulia in Vaticano, dove in realtà oggi è conservato un solo motetto: Exaudiat (te) Dominus (segnatura: XV. 105, p. 27).Al B. tuttavia sono attribuite anche due messe adespote a 16 voci,LaFebea e LaMelliflua, ivi conservate (Bibl. Apostolica Vaticana, Capp. Giulia, XI. 79,nn. 3 e 4), caratteristiche per l'impiego della settima nella cadenza finale. Nel catalogo manoscritto della raccolta Santini a Roma erano registrate inoltre le seguenti quattro composizioni: Magnificat a 8voci, AveRegina, canone a 7 voci,Popule meus in due cori e ExaudiatteDominus a 3 voci; il Killing cita invece nella stessa raccolta (ora a Münster, Bibliothek im Bistumsarchiv), al posto dell'AveRegina edel Popule meus, i motetti Confitemini Domino a 3 soli e cori edEcce Sacerdos magnus a 2 voci (inserito nella raccolta a stampa di G. B. Caifabri e F. Cavallotti, Scelta de Motetti da cantarsi a due e tre voci…, Roma 1665,G. Fei). Delle varie composizioni sacre e profane, tutte elencate dall'Eitner e dal De Rensis, che si trovano nelle principali biblioteche italiane e straniere (Roma, Bologna, Modena, Berlino, Monaco, Dresda, Vienna, Londra, Cambridge, ecc.), si ricorda qui l'autografo di Due bassi d'organo cifrati,conservato alla Staatsbibliothek di Monaco (la più ricca di opere del B.); un Agnus Dei a 4 voci e l'antifona Ave Regina Coelorum a 7 voci, conservati a Roma presso la.Bibl. Casanatense (segnatura: fondoBaini, Mus. 214 e ms. 2564), e XICantates pour soprano avec basse continue(poesia dei marchese Spada Veralli), conservate nella Bibliothèque du Conservatoire Royal de Bruxelles (segnatura: ms. n. 566), non citati dall'Eitner e dal De Rensis. Per quanto riguarda la produzione teatrale dei B., inoltre, sappiamo che essa si svolse tutta alla corte di Monaco. Le prime due opere, ambedue completamente perdute, furono rappresentate nel 1674; la prima, La conquista del Velo (sic) d'oro in Colco,su libretto di D. Gisberti, era probabilmente un torneamento a cavallo; la seconda, La fabbrica delle corone,sempre su libretto del Gisberti, presenta alcuni dubbi sull'attribuzione, essendo le notizie pervenuteci incerte e discordi. Dell'anno successivo è Iportenti dell'indole generosa, ovvero Enrico terzo imperatore, duca 33 (sic) di Baviera (libretto del Gisberti), purtroppo anch'essa perduta. Restano i libretti a Monaco e a Vienna delle ultime due opere, rappresentate a Monaco rispettivamente nel 168o e 1486, Illitigio del Cielo e della Terra conciliato dalla pubblica felicità di Baviera (libretto di V. Terzago), "torneamento festivo" in occasione del matrimonio della principessa Marianna Cristina di Baviera con il principe ereditario di Francia, ed Erote e Anterote,"torneocelebrato dall'A.S.E. di Massim. Emanuele etc. alle Sue augustissime nozze con la Seren. Elettrice Maria Antonia ".
IL SERVO DI DIO
MONS. GIUSEPPE DI S. MARIA ( SEBASTIANI)
Caprarola è una cittadina medioevale adagiata sulle falde dei monti Cimini in provincia di Viterbo. Nella parte più alta è dominata dal Palazzo Farnese, ricco di storia e di arte e aperta ad un vasto e suggestivo panorama. Gerolamo Sebastiani (così si chiamava il servo di Dio) vi nacque il 21 Febbraio 1623 da Giuseppe e da Polissena Lorenzi; lui proveniente dalle Marche e lei appartenente ad una delle più onorate famiglie del luogo. Una buona nidiata di figli, tre maschi e due femmine, venne a rallegrare quella famiglia. Gerolamo fu il secondogenito. Non si conoscono molti particolari della sua fanciullezza. I suoi genitori erano così felicemente uniti che chiesero al Signore la grazia di poterlo essere in vita e in morte. Morirono infatti nello stesso giorno.
Si narra che avendo il papà condotto in campagna il bimbo, questi si addormentò sul suolo durante la breve assenza del genitore. Quando tornò lo trovò avvolto tra le spire di un serpe. Spaventato al massimo e non sapendo cosa fare per non terrorizzare il piccolo, si raccomandò alla Vergine e ad un piccolo movimento l'animale si divincolò rapidamente e scomparve tra le erbe. Rimasto orfano in tenera età, fu affidato alla tutela del fratello maggiore Carlo che lo inviò dapprima nella città di Viterbo per seguire gli studi e in seguito si trasferì a Roma presso i Padri gesuiti che ne curarono la formazione scientifica e spirituale. A contatto con la recente comunità carmelitana di Caprarola, voluta dalla munificenza del Card. Odoardo Farnese, gli nacque la vocazione religiosa.
Si consultò con il suo padre spirituale e si rivolse al superiore del convento di S. Maria della Scala in Roma, P. Luigi di S. Giuseppe. Fu messo subito alla prova perché la sua decisione non fosse effetto di momentaneo entusiasmo. Il giovane diede a vedere subito la solidità della sua decisione distaccandosi da tutto e giungendo perfino a recidersi la sua fluente capigliatura, come era uso nel suo tempo, e dare a credere che intendeva fare sul serio. Finalmente vestì l'abito della Vergine il 3 Marzo 1640 nonostante l'opposizione di suo fratello e gli fu posto il nome di Fr. Giuseppe di S. Maria. Nel noviziato di S. Maria della Scala vi aleggiava il vero spirito teresiano, reso visibile dalla vita santa dei due famosi maestri Giovanni di Gesù Maria e Alessandro di S. Francesco.
Alla scuola dei santi del Carmelo il novizio fece passi da gigante nella via della perfezione religiosa. Suo immediato maestro fu il P. Antonio di S. Maria, il quale gradatamente lo introdusse nello studio e nella pratica della spiritualità carmelitana. Proponendogli l'intima comunione con Dio come fine essenziale, lo educò contemporaneamente nell' esercizio del distacco e nella pratica di ogni virtù. Distaccandosi da tutto arrivò a impedire che suo fratello Carlo venisse a fargli visita, per timore che lo distogliesse dalla sua vocazione. Punti di riferimento erano i cosi detti "Sacri puntini", tramandati dai Santi riformatori e raccomandati dal Venerabile Calahorritano. Essi diverranno la "magna carta" di tutti i noviziati successivi.
RELIGIOSO PER SEMPRE
Concluso felicemente l'anno di noviziato fece la professione religiosa il 3 Marzo 1641 con la emissione dei voti. Vi rimase fedele fino alla fine, convinto che la vita religiosa era la via regale della santità. Il biografo P. Eustachio suo nipote, scrivendone la vita nel 1718, lo definì: "Uomo di rara e singolare osservanza, d'altissima orazione, di zelo apostolico e di invidiabile prudenza".
Ai voti aveva voluto aggiungere il proposito di non accettare alcuna prelatura dentro e fuori dell'Ordine, scegliendo ciò che fosse il più perfetto e il più gradito al Signore, vivendo nel nascondimento. Perché il proposito del distacco fosse più completo chiese ai superiori di poter proseguire gli studi non in Caprarola sua patria, allora casa di studi, ma in altro convento lontano. La richiesta fu accolta ed egli fu inviato a Gratz in Austria con grande disappunto di suo fratello Carlo. Gravosi furono i disagi del lungo viaggio, data la sua gracile costituzione. D'ingegno acuto e penetrante, terminò il corso teologico con grande profitto e molto più, divenne autentico religioso teresiano. Si ritenne indegno di ricevere gli Ordini sacri e solo quando i superiori glielo imposero, perché molto si ripromettevano dal suo ministero, fu ordinato Sacerdote. Il citato autore riferisce che: "Aveva impressa nell'anima una singolare devozione a questo Santo sacrificio e perseverò poi sempre a celebrarlo con angelico raccoglimento".
Vi trovava energie sempre nuove sia da semplice religioso come da missionario e da Vescovo; quelle che gli occorrevano in difficili e delicate situazioni. Solo nel 1651 il Superiore generale P. Francesco del SS.mo Sacramento lo richiamò in provincia e gli affidò l'insegnamento nel collegio filosofico di Caprarola. Vi rimase appena un anno perché dovette recarsi nella città di Terni e di Roma per l'insegnamento della teologia in S. Maria della Vittoria. Aveva acquistato una grande perizia nell' insegnamento di tali materie e i suoi numerosi alunni trovarono in lui "il dotto" il quale alla sapienza e dottrina univa il tratto di grande amabilità, vivacità e allegria e divenendo amico di tutti seppe creare intorno a sé rispetto e venerazione. Il desiderio della perfezione era radicato in lui in maniera profonda e lo tenne seriamente impegnato per tutta la vita, nelle varie mansioni e nelle diverse circostanze. Il suo confessore P. Gregorio di S. Francesco dichiarò che in tutte le sue confessioni non aveva mai trovato materia grave di offesa al Signore.
MISSIONARIO DI CRISTO
Da poco tempo nella Congregazione d'Italia, sotto l'impulso del Ven. P. Giovanni di Gesù Maria, era stato riscoperto lo spirito missionario e accolto con enorme entusiasmo da tutti i religiosi, i quali si resero subito disponibili per qualsiasi impresa di tal genere. Fr. Giuseppe fu uno di questi quantunque si reputasse indegno di una missione così nobile e santa; accettò la nomina di commissario del Papa Alessandro VII insieme a P. Giacinto di S. Giuseppe. Si trattava di ricomporre l'unità dei Cristiani della Serra Malabarica - India - compromessa da divisioni e disordini procurati ad arte da persone intruse ed intriganti. Il Pontefice pensò che "inviando un qualche grave religioso Carmelitano Scalzo con carattere e qualità di delegato apostolico, il quale colla saviezza ne componesse li dispareri e colla autorità ne quetasse le turbolenze, frenando l'orgoglio dei contumaci, et avvalorando il coraggio dei buoni". (Op. cit. cap.VIII - 31).
In quella comunità ecclesiale, bagnata dal sangue dell' apostolo Tommaso e accresciuta dalle fatiche di S. Francesco Saverio, Un certo Tommaso De Campo, arcidiacono della Chiesa locale, si era ribellato al proprio arcivescovo e, autoproclamatosi arcivescovo e fattosi consacrare, aveva distaccato da quella comunità ecclesiale una buona parte di fedeli. Inoltre, aiutato da un falso patriarca nestoriano, vi aveva diffuso dottrine perniciose e contrarie all'insegnamento della Chiesa, creando confusione e divisioni, a tal punto da ridurre quella comunità Cattolica, già tanto rigogliosa, a poche migliaia di fedeli.
Licenziatosi dal Pontefice e avendo come compagni i confratelli P. Vincenzo di S. Caterina, della provincia Lombarda, P. Raffaele di S. Alessio romano, e Fr. Luigi della provincia di Lione, partì da Roma il 22 Febbraio 1656 avendo appena 33 anni di età.
Dedicò tutto il viaggio alla SS.ma Vergine di Loreto e, imbarcatosi a Napoli, raggiunse Messina, l'isola di Malta e da qui toccò Candia, Cipro, Porto d'Acri e Tolemaide. Ebbe l'immensa gioia di visitare il Santo Monte Carmelo, estasiato della semplicità e povertà di quei confratelli. Venerò con grande effusione il simulacro della Vergine e si introdusse nella grotta di Elia.
Le altre tappe obbligatorie furono Tripoli del Libano, Sidone, Aleppo, accompagnate da furiose tempeste e difficoltà senza numero, provenienti da uomini, dal tempo e dai luoghi, in un viaggio durato ben 13 mesi.
Furono gli stessi equipaggi insicuri; incontri con carovane di selvaggi, di ladroni e di pirati che misero a dura prova il suo coraggio fino a rischiare seriamente la propria vita, unitamente a fame e sete, malattie e strapazzi di ogni genere. In tutti quei frangenti egli andava ripetendo: "Che navighiamo è urgente; che viviamo non è necessario. Dominus sollicitus est mei".
Arrivato come Dio volle alla mèta, cominciò ad operare con tanta pazienza e carità affezionandosi a tutti cattolici e scismatici, distribuendo loro una grande quantità di Scapolari del Carmine, conquistandosi così il favore di tutti. Trattò subito con grande prudenza e fermezza l'affare che la Sede Apostolica gli aveva affidato, e andò incontro ad una serie immensa di patimenti, sopportati per fare discernimento in quel gregge disorientato e ricondurlo all'unità della Chiesa.
Si tentò di sequestrarlo, di avvelenarlo sopprimerlo tramite l'azione diabolica dell'intruso e ambizioso arcidiacono. Il Servo di Dio non si perse d'animo, né venne meno il suo coraggio e, confidando sempre nell'aiuto di Dio, appianò ogni difficoltà e avviò le trattative con immensa pazienza e carità. Sul suo conto si usò anche l'arma della calunnia facendolo ritenere come impostore, vagabondo e mago, simoniaco e ladro. Dopo quasi un anno di intenso lavoro portato avanti in mezzo a difficoltà enormi, avendo ormai ricondotto diverse comunità all'unità della Chiesa e ridonata un po' di pace alla Serra Malabarica, senza però riuscire a convertire del tutto l'intruso arcidiacono, pensò di far ritorno a Roma e rendere conto del suo operato alla Sede Apostolica.
Ripartì il 7 Gennaio 1658 e dopo altri 13 mesi di fortunoso viaggio raggiunse la città eterna il 22 Febbraio 1659.
L'accoglienza fu particolarmente calorosa, tenendo conto della difficile impresa apostolica condotta ormai a buon fine. Risiedé nei conventi di S. Maria della Scala e di S. Maria della Vittoria da dove, data la vicinanza con il Quirinale, potè recarvisi agevolmente e conferire con il Papa desideroso di essere informato di tutto. Accolto con grande benevolenza e stima, il Pontefice ordinò una commissione cardinalizia perché decidesse il da fare per il consolidamento di quella Chiesa del Malabar. Fu deciso di inviare un amministratore apostolico con carattere episcopale e con la facoltà di consacrare vescovi. Naturalmente la scelta cadde proprio sul P. Sebastiani che quantunque riluttante per il voto fatto, dovette accettare la nomina e la consacrazione episcopale conferitagli nella stessa cappella Pontificia da Mons. Landucci, Vescovo di Porfirione, il 15 dicembre 1659 a 37 anni di età. Accompagnato da altri religiosi e con nuove istruzioni pontificie, dovette riprendere il viaggio delle Indie Orientali. Si trattava di definire ogni questione e risolvere in maniera consistente la situazione.
Dalle lettere pontificie egli fu definito come religioso di specchiata fede, prudenza, integrità, destrezza, vigilanza e zelo della Cattolica religione; era l'atto di presentazione.
Ripartito da Roma, dovette affrontare altri disagi di un viaggio lungo e quantomai difficile. Sostò nella città di Goa e arrivò a Coccino (Cochin) il 14 maggio 1661.
Dovè riprendere il suo lavoro pastorale rivisitando tutte le parrocchie della Serra Malabarica: si trattava di far luce e chiarezza presso quei fedeli, ripresentare la fede cristiana e la necessità di essere e vivere nell'unico gregge di Cristo dal quale molti si erano separati.
Spiegò attraverso varie giunte che Tommaso De Campo e il suo aiutante Ititomè erano falsi pastori non nominati a tale ufficio dal Pontefice.
Tra le altre cose dovette celebrare molte ordinazioni sacerdotali conferite invalidamente dall'intruso, molte cresime e altri sacramenti.
Dopo aver usato la massima prudenza e carità con il falso prelato, non potendo assolutamente accogliere le sue richieste incompatibili con la fede cattolica, dové ricorrere alle pene ecclesiastiche, fare chiarezza e agire con molta determinazione per salvare quella comunità ecclesiale.
Vi riuscì in parte e, dopo un anno, avendo provveduto quella chiesa di nuovo pastore nella persona di P. Alessandro De Campo che assunse il titolo Episcopale di Megara, decise di ritirarsi.
Avvalendosi delle facoltà pontificie, lo consacrò egli stesso con grande solennità e con grande soddisfazione di tutti, i quali finalmente tornavano a vivere un tempo di pace in quella cristianità.
Il viaggio di ritorno durò altri 13 mesi in balia di altri pericoli per terra e per mare, incontrando diverse e furibonde tempeste; dovette più volte raccomandarsi l'anima unitamente al suo equipaggio.
L'ultima, forse la più tormentosa, sbattè tutto l'equipaggio contro le coste Italiane e solo con una manovra intelligente del capitano, con l'aiuto di Dio, approdò nell'isola di Ponza. Raggiunse S. Felice al Circeo e toccando la città di Velletri, da qui raggiunse Roma.
Con grande spirito di fede ebbe a dichiarare: "Conosco benissimo che la Divina Misericordia mi ha sempre con singolarissima Provvidenza aiutato, protetto e guidato". Più ancora attribuì alla Vergine Ss.ma di Loreto la riuscita di ogni sua impresa avendola eletta" vigilantissima tutelare".
Giunse a Roma il 6 maggio 1665 e compiute tutte le formalità si recò da Alessandro VII per rendergli omaggio e informarlo di tutto; chiese nello stesso tempo il permesso di ritornare al chiostro nell'Eremo di Montevirginio.
Tale permesso non gli fu accordato poiché il Sommo Pontefice era convinto che la sua vita ancora tanto giovane potesse giovare alla Chiesa. Fu nominato Visitatore apostolico delle Isole del Mare Egeo.
Diveniva così, commesso viaggiatore della Santa Sede. .
Le isole del mare Egeo dipendevano dalla Repubblica di Venezia e dalla Turchia e quelle popolazioni dovevano contribuire ai gravami dell'una e dall'altra con evidente disappunto.
Spiritualmente dipendevano dal Patriarca di Costantinopoli. A Nasso c'era la sede arcivescovile e la comunità latina era molto ridotta e a contatto con i greci si era creata una certa confusione. La S. Sede cercava di controllare la situazione inviando ogni 10 anni un suo rappresentante perché determinasse le leggi e ne ottenesse l'esecuzione.
Mons. Sebastiani dopo aver visitato suo fratello morente nel convento di S. Valentino in Temi, vi si recò chiedendo prima un appoggio logistico alla repubblica veneta, ottenuto tramite il papà di S. Gregorio Barbarigo, Giovanni Battista.
In quelle isole l'accoglienza fu più che entusiasta sia da parte dei vescovi locali, sia da parte della popolazione. Per prima cosa vi raccomandò il culto liturgico e il rispetto del tempio di Dio; condannò il vizio e i cattivi costumi, ponendovi opportuni rimedi.
Ai Vescovi, al clero e ai religiosi propose la santità come urgente testimonianza in mezzo a quel gregge. Anche qui gli fu attentata la vita da parte degli irriducibili avversari che lo volevano avvelenare. Ovunque si recò cercò di ricomporre nell'unità inveterate divisioni, predicando la parola di Dio con grande zelo e amministrando i sacramenti.
Molti furono i fioretti che sbocciarono qui per effetto della grazia. Visitò le isole di Caristo - Tine - Micone - Andro - e Delo, i cui particolari sono
descritti nella citata opera.
Riferì come in tutta la sua vita, non trovò mai strade tanto disagiate e impervie quanto quelle delle isole, tutte incastonate tra enormi dirupi e pietraie.
A Schio si incontrò con 6 Vescovi greci i quali gli significarono i disagi di quelle popolazioni e gli proposero questioni dottrinali concluse positivamente con la totale sottomissione all' autorità del Papa.
Tracciò loro un programma di rinnovamento di vita spirituale e imbarcatosi sulla nave del generale Comaro fece ritorno a Roma.
Mentre si trovava a Venezia il 22 maggio 1667 gli giunse la notizia della morte di Alessandro VII. Fu grande il suo dispiacere essendogli legato da grande amicizia. Un pensiero lo preoccupava: che la sede vacante durasse troppo a lungo a scapito della Chiesa universale e di quella del Malabar, bisognosa ancora di tanta attenzione e sollecitudine pastorale.
Volle recarsi a Loreto per ringraziare "Maria stella polare di tutta la navigazione della sua vita" come l'aveva definita. Ritornò a Temi e da qui raggiunse la cittadina di Caprarola per salutare i suoi cari e i confratelli carmelitani. Nel frattempo fu eletto il nuovo Pontefice nella persona del cardinale Rospigliosi che assunse il nome di Clemente IX.
Il 26 luglio Mons. Sebastiani rientrò in Roma proprio mentre il novello Pontefice prendeva possesso della cattedrale di S. Giovanni in Laterano.
Si confuse tra la folla festante, ma il Papa lo riconobbe e terminata la funzione, lo mandò a chiamare dal vicino convento di S. Maria della Vittoria. Lo accolse "con tenerissimo affetto" e gli volle affidare la cura pastorale della diocesi di Anglona e Tursi in Basilicata, convinto che avendo operato così egregiamente in mezzo agli infedeli, molto più avrebbe lavorato in mezzo ai cristiani.
VESCOVO DI BISIGNANO IN CALABRIA
Confuso e sbigottito per il nuovo incarico, piegò il capo come sempre alla volontà di Dio espressagli dal Papa che questa volta gli volle affidare la sede vescovile di Bisignano in Calabria. Avrebbe voluto nominarlo segretario di "Propaganda fidei" ma egli declinando altri onori più prestigiosi, partì immediatamente per raggiungere il suo nuovo gregge. Bisignano, cittadina della provincia di Cosenza, aveva l'aspetto di una Roma in miniatura, per i suoi sette colli come l'aveva descritta qualche autore. La popolazione era molto semplice e laboriosa, dedita all'agricoltura e all'artigianato; servita religiosamente da abbondante clero. La situazione spirituale non era del tutto florida: vi dominava il malcostume nelle classi agiate e una certa rilassatezza attribuita all'età decrepita del suo predecessore.
Imbarcatosi a Vietri raggiunse la città di Paola accolto molto cortesemente dai padri Minimi e si trattenne presso di loro per venerare le reliquie del grande taumaturgo calabrese S. Francesco di Paola.
Contemplativo com'era, si volle beare della stupenda visione dei due mari Tirreno e Ionio, visti dall'alto dei monti con un unico colpo d'occhio. A Lattarico, primo paese della diocesi, gli venne incontro la popolazione che lo accolse calorosamente e lo accompagnò fino a Bisignano il giorno 8 Novembre 1667. Prese possesso di quella sede senza manifestazioni trionfalistiche e chiassose, ma con somma semplicità. Vi si recava per servire e non per dominare quel popolo. Si pose subito in azione con un lavoro capillare e paziente, diretto ad elevare la vita spirituale del suo gregge. Si scrisse di lui, quando si volle classificare il suo ministero pastorale: "Governò con forte soavità e con soave fortezza: attento a non estinguere del tutto li rimorsi della sinderesi (coscienza) né a tollerare con disperato rigore e con reprensibile connivenza le licenze; animava i pusillanimi e temperava il coraggio talora eccessivo dei più animosi: esortava con discorsi pastorali il popolo alla pietà e spronava con le parole, e molto più con l'esempio li parrochi alla vigilanza" (Op. cit. 37).
Prima di tutto voleva che l'insegnamento della dottrina cristiana fosse impartito con ogni cura ed assiduità essendo fondamento di tutta la vita cristiana.
Ugualmente insisteva sulla liturgia e sulla formazione culturale e spirituale del Clero mettendosi, a tale scopo, a disposizione di tutti.
Una folla di poveri, data la mancanza di risorse e la disorganizzazione sociale, batteva alla sua porta per chiedere aiuto. Erano i diseredati, gli orfani, le vedove, gli operai i cui diritti erano puntualmente conculcati dai dominatori di turno. Mons. Sebastiani si fece "tutto a tutti", difendendo sempre la dignità della persona umana e aiutando tutti come poté. Risplendevano nella sua persona la virtù della dolcezza congiunta ad indomito coraggio e fermezza nel correggere abusi e difetti connessi alla natura umana. Questo apostolato deciso e concreto lo mise subito in contrasto con alcuni signori del luogo che dominavano incontrastati e pretendevano di dettare leggi al nuovo pastore e condizionarlo nel suo ministero pastorale.
Anche qui gli piovvero addosso una quantità di calunnie, lettere anonime e carteggi pubblici; tutto diretto a metterlo in cattiva luce presso il suo clero e presso i fedeli.
Il Servo di Dio mise tutto in conto volendo sempre rassomigliare in qualche modo al suo Maestro Crocifisso.
Le visite pastorali si susseguirono con grande sollocitudine volendo conoscere di persona il suo gregge e valutare il livello spirituale di quelle anime.
A tale scopo non risparmiò fatiche e disagi e non ebbe paura dei potenti principi e signorotti i quali pretendevano di intromettersi in quel lavoro pastorale per condizionarlo.
Vi fu il caso del Barone di Tarsia il quale aveva concepito per il santo pastore un odio viscerale. Accadde proprio che durante il battesimo di un nobile parente fungesse da padrino. Il Servo di Dio con grande carità e coraggio gli si fece innanzi e stringendogli la mano gli disse: "Voglia o non voglia, desidero servirla e quanto più mi odia, tanto più l'amo".
Tanto bastò per smontare per sempre quell'inutile castello di odio che si tramutò subito in amicizia perenne.
Altra volta dovette intervenire con una certa fermezza contro il Principe Don Carlo Sanseverino il quale, non si sa per quale pretesa, aveva fatto costruire nel presbiterio della cattedrale un trono. Monsignore appena conosciuto il fatto lo fece immediatamente smontare e quando questi pretendeva di entrare nel tempio armato di tutto punto e fare sfoggio della sua potenza, egli lo affrontò chiedendogli: "Che chiedi dalla Chiesa di Dio Principe di Bisignano?". Questi sopraffatto dalla maestà e dall'umiltà del Servo di Dio, sceso a più miti consigli, depose fuori del tempio le armi e la sua arroganza e rispose: "Vengo per assistere ai divini uffici" (Op. cito 386). Mons. Sebastiani presolo per mano lo condusse nel tempio tra l'ammirazione e il plauso dei presenti per la ritrovata pace.
La sua intensa attività pastorale era congiunta ad una profonda vita interiore fatta di orazione e di penitenza; povero nel vestito e nel vitto, in continua comunione con il Signore. Fedele alla sua vocazione di contemplativo trovava il tempo per trascorrere le due ore di preghiera prescritte dalla regola del Carmelo. Tutta la sua spiritualità era attinta alla scuola del Carmelo, incentrata nel distacco totale da ogni creatura per vivere l'intimità con il Signore. Tutta la sua attività e la stessa conversione delle anime proveniva da questo contato continuo con Dio.
Intervenne decisamente contro gli errori dottrinali e il malcostume, come nel caso di un certo don Fabrizio Carasella qualificatosi per mago e di Carlo Funari che riportò alla santità di vita, riconducendolo al monastero da cui era uscito con scandalo di quella Chiesa. Carità pastorale, pazienza e fermezza furono le sue armi di difesa in ogni circostanza. Anche la comunità Albanese insediatasi in quella diocesi usufruì della sua sollecitudine pastorale, poiché egli vigilò perché in quel rito non fossero introdotte novità seducenti e la comunità greca non fosse danneggiata.
Trascorsero tre anni di ministero pastorale in terra Calabra quando il 9 Dicembre 1669 venne a mancare Papa Clemente IX suo grande amico e gli successe sulla cattedra di Pietro il cardo Altieri col nome di Clemente X. Questo Pontefice, suo grande ammiratore, nell'anno 1672 gli volle affidare la sede vescovile di Città di Castello, pensando così di rendergli più facile la sua azione pastorale tanto insidiata e avversata in quella sede per opera di persone che lo perseguitavano a morte, mentre il clero e il popolo gli erano sommamente affezionati.
Il capitolo della cattedrale, il clero e la popolazione lo diedero a vedere quanto fossero addolorati per la promozione del loro pastore, da loro tanto amato e stimato: gli scrissero con espressioni tanto eloquenti, significandogli che, uno sposo non abbandona mai la propria sposa per nessun motivo e per nessuna cosa al mondo.
IN TERRA UMBRA, VESCOVO DI CITTÀ DI CASTELLO
Il pericolo di dover lasciare la sede calabrese lo presentì e, dovendosi recare a Roma per la visita "ad limina" si congedò da quella Chiesa con grande commozione e vi avrebbe fatto ritorno se la volontà del Papa non avesse disposto diversamente. L'ultimo saluto con le lacrime agli occhi, lo rivolse da Paola a quei fedeli assicurandoli nelle sue preghiere.
Voleva sottrarsi al nuovo incarico ricorrendo ai cardinali Massimi e Paluzzo Altieri, ma quelli gli fecero capire che, avendo fatto il voto del più perfetto, doveva ubbidire e servire la Chiesa data la sua giovane età.
La cittadina Umbra aveva una lunga esperienza di vita cristiana che risaliva ai primi secoli della Chiesa. Vi erano fiorite l'arte e la santità attraverso l'amabile figura di S. Veronica Giuliani, che ricevé l'abito religioso proprio da lui; fu raccomandata ai superiori e diretta da lui nelle vie misteriose della santità.
Mons. Sebastiani vi si recò con molta sollecitudine raggiungendola ai primi giorni di Novembre. La cittadinanza, informata del suo arrivo, gli riservò calorose accoglienze tanto più che veniva a loro un pastore missionario e rappresentante del Papa.
Egli non deluse le aspettative e mise subito in atto tutte le sue energie, avvalorate dalle precedenti esperienze pastorali.
Per prima cosa volle che nel suo palazzo vescovile fosse di casa "madonna povertà" volendo che alla sua mensa partecipassero i poveri che serviva egli stesso, convinto di servire Cristo. Usò nei loro riguardi grande generosità, dando ordine che tutte le risorse della mensa vescovile fossero devolute per le loro necessità.
Innamorato della parola di Dio, la meditava e approfondiva nel silenzio, per poi proporla con grande ardore, ammonendo, esortando, servendosi di esempi pratici, diretto a farsi capire dai dotti e dagli ignoranti.
Alcuni testimoni asserivano che egli parlava con tanta eloquenza e con altrettanta unzione da riuscire durante il carnevale a fare disertare le piazze ai suoi fedeli che accorrevano in massa per ascoltarlo; aveva il carisma della parola e riusciva ad infiammare gli animi e a trascinarli nel bene. Tra l'altro si dilettava di musica e di canto, volendo che nella sua casa vescovile si solennizzassero le serate natalizie come era in uso al Carmelo.
Il biografo ebbe ad asserire che "Mons. Sebastiani, se aveva trovato le Chiese ridotte in piazze, egli aveva convertite le piazze in Chiese" (Op. cito 436).
Rivolse la sua attenzione prima di tutto al clero e successivamente a tutto il popolo. Iniziò dal culto divino e dalla liturgia perché fosse rinnovata e vissuta meglio poiché la celebrazione dei divini misteri e l'amministrazione dei sacramenti venivano bistrattati dalla fretta e dalla distrazione. Per rinnovare la vita della diocesi preparò e celebrò due Sinodi con conclusioni molto sagge e pertinenti.
Frequenti furono le visite pastorali con le quali di persona volle rendersi conto del livello spirituale e materiale di tutta la Diocesi.
Le località erano piuttosto impervie e difficili da raggiungere a tal punto che da molti anni non vedevano più il proprio pastore. Egli si sobbarcò a intemperie, fatiche e disagi pur di prendere contatto con tutti e i frutti furono abbondanti.
Anche qui non gli mancarono sofferenze e calunnie, orientate tutte a fiaccare il suo coraggio e farlo desistere da quell' azione pastorale tanto assidua ed efficace.
Approvati e stampati i decreti sinodali nel 1675, volle che tutti i sacerdoti li possedessero e fossero scrupolosamente osservati a vantaggio della Chiesa locale che vi fece grandi progressi di vita spirituale.
Il 21 Settembre 1676 salì sul trono Pontificio Innocenzo XI, "uomo di Dio", che la Chiesa eleverà alla gloria degli altari nel 1958 per opera di Pio XII.
Lo conosceva bene e si era stabilita tra le due personalità una certa affinità di spirito e una santa amicizia. Ricevendolo una volta in udienza quantunque fosse malaticcio, l'udienza si protrasse per ore e ore con meraviglia dell' anticamera: come mai un Pontefice tanto malato si intratteneva così a lungo con Mons. Sebastiani? La risposta venne dallo stesso Innocenzo XI: "Abbiamo avuto una delle maggiori consolazioni del nostro pontificato, in aver parlato a lungo con un grand'uomo dabbene, il Vescovo di Città di Castello" (Op. cito 514 ).
Tra le altre cose, in Diocesi trovò il modo di purificare il culto dei santi Martiri molto spesso mescolato a superstizioni e disordini in occasione della loro festa.
DEVOZIONE VERSO LA VERGINE MARIA
Come figlio del Carmelo non poteva non interessarsi del culto mariano. La sua devozione era profonda e sentita e pertanto la volle diffondere dove fosse assente o indebolita.
Ripristinò l'uso del suono delle campane al mattino, a mezzogiorno e a sera perché tutti si ricordassero di ossequiare la Madre di Dio con la salutazione angelica. Era lui stesso che talvolta ne dava esempio in pubblico, scendendo dalla carrozza e porsi in ginocchio per recitare "l' Angelus". Anche la recita del S. Rosario era quotidianamente praticata unitamente alla pia prassi dello Scapolare del Carmine, come atto di consacrazione e di protezione della Ss.ma Vergine che diffuse lungo i suoi pericolosi viaggi e in ambedue le Diocesi.
I due santuari mariani di Belvedere e di Pietralunga divennero la pupilla dei suoi occhi. Nel primo, voluto dal suo predecessore e da lui completato, ebbe la incomparabile gioia di intronizzarvi una antica icona mariana.
Nel secondo pose i titoli molto significativi di Maria: "Utriusque salutis remedium". Tale titolo fu motivato dalla liberazione di Vienna al tempo di Innocenzo XI contro l'invasione ottomana cui si aggiunse la sospirata pioggia che da diversi mesi mancava in quella regione. Maria SS.ma aveva allontanato il pericolo dell'invasione di tutta l'Europa e ottenuto la pioggia abbondante, favorendo così la salute del corpo e quella dello spirito.
L'ULTIMO VIAGGIO
La salute di Mons. Sebastiani, già minata e fiaccata dalle enormi fatiche, dagli interminabili viaggi, dai digiuni e penitenze, fu compromessa ancora dall' insonnia che divenne cronica. Lo si notò dal suo viso emaciato e pallido, da tutta la persona dimagrita e indebolita al massimo, impressionando lo stesso Pontefice Innocenzo XI che gli raccomandò di riposarsi e curare meglio la propria salute.
Presago della prossima fine, volle congedarsi dal Pontefice e dai cardinali; si recò a Caprarola per salutare i suoi desideroso ormai di raggiungere la meta. Il suo desiderio era quello di poter morire nel giorno dedicato alla Regina del Carmelo o nella festa di S. Teresa di Gesù. Conoscendo la data vi si volle preparare degnamente.
Volle dispensare i nipoti e parenti da altre visite disponendo che tutte le sue povere risorse fossero devolute a favore della Chiesa locale, a beneficio dei poveri e in parte al Seminario di S. Pancrazio per le necessità della Serra Malabarica.
Fece scomparire gli strumenti di penitenza e, peggiorando ancora, chiese perdono a tutti, al clero e a quanti componevano la curia vescovile.
Giunse perfino a chiedere che il suo cadavere fosse seppellito sotto il pavimento della Chiesa cattedrale perché tutti potessero calpestarlo come oggetto di nessun valore.
A tale scopo si era preparato un epitaffio tutto soffuso di grande umiltà, in questi termini: "Foglia della selva del riformato Carmelo, staccata e portata dal vento per il mondo, fatta nutrimento nocivo del gregge - e ora racchiusa sotto questa pietra - calpestate, o piedi degli uomini".
Quantunque le sue sofferenze fossero enormi, dal suo animo non scaturì un lamento, ma gemiti e preghiere pervase da straordinaria freschezza.
"Aumenta il dolore e aumenta anche la pazienza; sii propizio a me peccatore; concedimi un purgatorio eterno, ma non l'inferno. Ricevi i miei dolori uniti alla tua passione". Questo suo calvario durò cinque mesi e tra l'altro, fu colpito dalla malattia degli scrupoli e dall' aridità di spirito, sembrandogli che Dio lo avesse dimenticato. Era invece "la notte dello spirito" che, secondo S. Giovanni della Croce, stava attraversando, e preludio della gloria.
Il 27 Luglio gli fu amministrato il S. Viatico stando in piedi e raccomandandosi alle preghiere di tutti perché gli fosse accordato il dono della perseveranza finale. Il Pontefice Innocenzo XI avuta notizia della sua grave malattia, espresse il suo rammarico pregando per la sua salute.
Mons. Sebastiani aveva offerto la sua vita per quella del Pontefice, ritenuta più utile alla Chiesa che non la sua. Il Pontefice spirò il 12 Agosto 1688 ed egli contemplò la gloria che il Signore aveva riservato a questo suo servo fedele.
Ci si mise anche il demonio che sferrò contro di lui l'ultima battaglia facendogli dubitare della Misericordia di Dio e arrivando ad assumere le sembianze del suo confessore P. Caraffa che lo consigliò in maniera strana e del tutto contraria allo spirito cristiano, tentando di disorientarlo e precipitarlo nella disperazione. Se ne avvide in tempo quando arrivò il P. Caraffa e, conosciuto l'equivoco diabolico, rinnovò la sua fiducia in Dio ponendo la sua persona nelle braccia di questo Padre misericordioso e clemente.
Giunse il mese di Ottobre e coloro che lo assistevano erano Mario Paoleri e Tommaso Bianchi che consapevoli della grave malattia, erano addolorati perché ormai era imminente la perdita di un padre così mite e santo.
Il giorno 14 perse quasi del tutto la favella e facendosi intendere con difficoltà chiamò il suo vicario generale P. Caromi, il canonico Randolfi e il suo segretario Don Andrea Chigi per fare a loro le ultime raccomandazioni. Voleva che i sacerdoti non si allontanassero troppo dalle loro parrocchie; che nei monasteri in tempo di "Sede vacante" non si rallentasse il fervore dello spirito.
Domandò che ora fosse e, sentendosi rispondere che era la mezzanotte, ringraziò il Signore esclamando: "Deo Gratias" poiché entrava nella fatidica data dell' 15 Ottobre 1689. Gli furono recitati i versetti di alcuni salmi in questi termini: "Unam petii a Domino, hanc requiram, ut inhabitem in Domo Domini", "Una cosa ho chiesto al Signore, questa io desidero, abitare nella casa del Signore".
Li gradì e li gustò sorridendo dolcemente e spirò. Il cronista annotò che mentre i religiosi carmelitani, nei conventi cantavano i secondi vespri di S. Teresa "il nostro Ven. Vescovo Fr. Giuseppe di S. Maria, Sebastiani, rese l'innocente suo spirito al Creatore" (Op. cito 537 ).
Il suo desiderio si era puntualmente realizzato morendo in giorno di sabato nella festa della Serafina del Carmelo a 66 anni di età, sette mesi e 21 giorni così distribuiti: 17 anni nel mondo, 16 nel Chiostro, 10 come missionario e vescovo della Serra Malabarica, 5 come pastore della diocesi di Bisignano in Calabria e 17 come Vescovo di Città di Castello in Umbria.
Grande fu il cordoglio di tutti, e le folle furono così numerose da dover transennare la salma e difenderla dai fedeli che già ne avevano tagliuzzato gli abiti e i capelli come preziose reliquie. Lo si dovè sotterrare di notte per sottrarlo alle intemperanze devozionali della popolazione, seppellendolo sotto il pavimento come aveva desiderato con questa iscrizione alquanto diversa da quella composta da lui:
"Ven. Fr. Joseph a S. Maria De Sebastianis. Bis ad Malabares, ad Arcipelagum semel delegatus apostolicus - Hierapolitani Bisiniani et demum Civitatis Castelli episcopus vigilantissimus - Hic dormit - qui dum permaneret in vigiliis multis - Hoc prae humilitate sibi monimentum paravit".
Tradotta dal latino così suona:
A Dio ottimo Massimo. Qui dorme il Ven. Fr. Giuseppe di S. Maria dei Sebastiani.Delegato Apostolico due volte nel Malabar ed una nell' Arcipelago: Vescovo vigilantissimo di Gerapoli, di Bisignano e finalmente di Città di Castello - il quale ancora vivo - si preparò per umiltà il seguente epitaffio: "Questa foglia - dalla selva del Riformato Carmelo per il mondo trasportata dal vento - e in pascolo delle pecorelle ovunque nociva - chiusa finalmente sotto questa lapide, piedi umani, calpestate" .
In seguito, nell'anno 1717, fu eseguita una ricognizione e fu trovato ancora in ottimo stato, ben conservato e molto disseccato, trasportato accanto alla porta di ingresso della stessa cattedrale.